nordSUDovestest – Addio a Radwan al-Kashef, la sensualità dello sguardo

La “nouvelle vague” egiziana, quella che ha iniziato a sedurre con le proprie arti sovversive di affabulazione teorica e di sensuale e ‘spregiudicato’ lavoro sui corpi, ha perso uno dei suoi autori più originali. Radwan al-Kashef se n’è andato la scorsa settimana. Aveva 50 anni e 3 film all’attivo. L'ultimo, “The magician”, è ancora inedito

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La nuova onda del cinema egiziano, quella che ha iniziato a sedurre con le proprie arti sovversive di affabulazione teorica e di sensuale e ‘spregiudicato’ lavoro sui corpi, ha perso uno dei suoi autori più originali. Radwan al-Kashef se n’è andato la scorsa settimana. Aveva 50 anni e due lungometraggi all’attivo (più un terzo appena terminato, “The magician”, ancora inedito, nella speranza che al più presto qualche festival, o molti festival, ovunque nel mondo, gli trovi lo spazio che merita).
Era nato al Cairo nel 1952, dove aveva studiato regia all’Istituto superiore di cinematografia e filosofia alla facoltà di lettere. La sua formazione filmica è nel nome dei grandi maestri, lavora con Youssef Chahine, il regista egiziano più noto a livello internazionale, con Daoud Abdel Sayed (di pochi anni più vecchio di al-Kashef, e già da metà anni Ottanta straordinario autore dallo sguardo personale nel muoversi all’interno dei generi), con Raafat al-Mihi. E percorre, con Yousri Nasrallah, Oussama Fawzi, per ricordare gli altri due cineasti di maggiore impatto, un pezzo di strada recente di questa sempre intrigante e sorprendente cinematografia (in rapporto al mondo arabo, ma non solo).
Radwan al-Kashef appartiene a quella generazione di autori che, pur con elevate e fondamentali differenze artistiche, hanno dato nuovo respiro al cinema egiziano, agili e sensuali decostruttori di forme che hanno spinto questa cinematografia verso percorsi inattesi nel segno, imprescindibile, dello sbilanciamento e dell'imperfezione, del gesto filmico dolce ma non definitivo, avvolgente ma non imprigionante. Tutti creatori di preziosi testi del rinnovamento e di una finzione indagata nei suoi strati più profondi.

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E' questione di sensualità di sguardo e di tocco. L'opera prima di al-Kachef è “Lih ya banafsig” (Le violette sono blu, 1992) che ha per set un quartiere popolare del Cairo e per protagonisti tre amici che vivono ai margini della società, custodendo sogni e ambizioni. Ma è lo stile di al-Kashef a rendere incandescenti i suoi, purtroppo pochi, lavori. Di “The magician” si parla di opera d’avanguardia, ma già altamente sperimentale era “Arack el-balah” (Il vino dei datteri, 1998), suo secondo lungometraggio, ritratto – fantastico e carnale, sognante e duro – di un villaggio senza uomini, costretti ad abbandonare case e famiglie per recarsi lontano a cercare lavoro, e della complicità fra l'unico ragazzo rimasto e le donne.
E’ cinema delle vertigini, stordente, sensuale fino all'ossessione, che punta con forte slancio sulla contaminazione figurativa, prendendo dei rischi, portando lo sguardo oltre i ‘confini di sicurezza’ della visione. “Arack el-balah” rappresenta a pieno titolo questa ricerca, situato fra luoghi da reinventare e senza tempo, dove ci si trova sradicati e senza punti di riferimento. Che non siano quelli del cinema e della sua assoluta e assolata seduzione. Gli uomini sono portati via dal villaggio da un esercito di soldati che sembrano usciti dai “Mad Max” e dai deserti australiani di George Miller. Il ragazzo che rimane si arrampica sulla pianta per cogliere i datteri, che daranno vino, e produrranno ubriacature, perdite e liberazione dei sensi. Vertigini nei corpi maschili e femminili che hanno causato salutari sbilanciamenti e sconfinamenti nel cinema egiziano (non solo) degli ultimi anni.

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