Nouvelle Vague, di Richard Linklater

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Corso estivo di MONTAGGIO, dal 22 luglio

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Non è solo un hommage sulla creazione e la lavorazione di Fino all’ultimo respiro. Il regista incanta con il cinema come aveva fatto con la musica in School of Rock. Mitico. CANNES78. Concorso

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La grande illusione. Girare Nouvelle Vague nell’anno in cui è stato realizzato, il 1959. Si vede subito dai titoli di testa, nell’immagine sgranata e nell’anno indicato sotto il titolo del film. È la prima grande magnifica truffa del nuovo film di Richard Linklater, forse l’hommage più diretto e l’atto d’amore al cinema francese da parte di quello statunitense degli anni Duemila dopo Frances Ha di Noah Baumbach.


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Il titolo è esplicito, decisamente spudorato. Del resto, solo facendo un film su Godard e la lavorazione di Fino all’ultimo respiro ci si poteva spingere fino a questo limite. Ma è anche un richiamo. Anche il cineasta francese era stato l’unico che, prima di Linklater, aveva dato il nome del celebre movimento a un suo film nel 1990.

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Torniamo indietro, riavvolgiamo il nastro. Richard Linklater fa coincidere il proprio anno di nascita (il 1960) con quello in cui sono è uscito il film. Anche se in modi diversi, anche Tim Burton e Quentin Tarantino hanno fatto una cosa simile. Lì si sente a livello di ambientazione e soprattutto in uno sguardo che ricrea in alcuni loro film proprio il periodo in cui i cineasti sono nati. C’è un’altra seconda magnifica truffa, quella del regista di ricrearsi la prima immagine in cui è venuto al mondo. Quelle del cinema diventano subito familiari. I ricordi personali sono legati, prima che alla memoria del proprio vissuto, ai film della loro vita. Per questo Nouvelle Vague per Linklater non è una semplice ricostruzione, né un atto d’amore. È qualcosa che va oltre e che potrebbe essere riassunto in quel doppio riflesso sugli occhiaki di Godard mentre sta vedendi I 400 colpi di Truffaut a Cannes e il suo film appena montato alla fine del film. “Tutto è filmabile” dice il regista al produttore Georges de Beauregard prima di cominciare le riprese. Linklater non rinuncia all’aneddoto (Jean Seberg che non voleva girare il film dopo essere stata diretta da Otto Preminger in Santa Giovanna e Bonjour tristesse, Rossellini che si fa prestare i soldi di Godard) e cerca di dare il ritratto più completo possibile di quegli anni cercando di non dimenticarsi nessuno, anche se mostrati fugacemente o con semplici istantanee fotografiche. Tra questi ci sono Truffaut, Chabrol, Rivette, Rohmer, Schiffman, Doniol-Valcroze, Varda, Demy, Rozier, Kast, Sadoul. In questa precisione che vuole essere esaustiva, al limite del pedagogico, Linklater riesce a ritrovare l’euforia di quel clima, la portata del rinnovamento della Nouvelle Vague, la rivoluzione stilistica.

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Girato in bianco e nero e in francese (tranne in alcuni momenti in cui Jean Seberg parla in inglese), Nouvelle Vague contagia per il suo entusiasmo, la semplicità della narrazione ma riesce anche ad andare a fondo nel pensiero-cinema sia di Godard sia di tutto il movimento. Ci voleva un film come questo per lasciare cadere finalmente nell’oblio la detestabile operazione di Hazanaviciius con Il mio Godard. Nel racconto di quei 20 giorni di lavorazione di Fino all’ultimo respiro, c’è anche tutto il cinema fuori quel film; Parigi è un set a cielo aperto che non si ferma mai tra Jean-Pierre Melville che sceglie le pistole e consiglia conosce i ladri di automobili fino a Robert Bresson che gira Pickpocket nella metropolitana. E in alcuni casi è impressionante la somiglianza con i veri personaggi, come Kassagi di quel film e Godard ma soprattutto Jean Seberg in questo. Ogni volta che l’attrice è sullo schermo, sembra quasi una proiezione onirica. La sua immagine potrebbe arrivare davvero da un documentario di cui si è ignorata per decenni l’esistenza e che ha visto la luce solo ora.

Stavolta il viaggio nella storia del cinema di Linklater è molto più maturo di Me and Orson Welles. Inoltre il cineasta ritrova Parigi dopo Before Sunset. Prima del tramonto, ancora una volta piena di traiettorie nascoste. In più, anche se si tratta della ricostruzione della creazione e la lavorazione uno dei film fondamentali che hanno fatto entrare il cinema nella modernità, Linklater mostra quei registi con quel trasporto dove il passato diventa memoria (auto)biografica di La vita è un sogno e Tutti vogliono qualcosa, uno dei suoi film migliori. Godard e i trentenni (anno più anno meno) cineasti della Nouvelle Vague, hanno quell’ansia di scoperta delle matricole studentesche di quei due film. Anche questo, dietro il cinema, i film che sono la vita stessa, anche Nouvelle Vague è un’altra fulminante variazione del cinema di Linklater sul passaggio tra la giovinezza e l’età adulta. Ogni storia ha poi i suoi flashback, soprattutto mentali. Una delle più belle è la scena in cui Godard vuole fare l’omaggio allo sguardo in macchina di Monica e il desiderio di Bergman. Così chiede al direttore della fotografia se l’ha visto. e lui risponde: “No, stavo in Vietnam”. Da lì il finale. Come la parole FINE riflessa sugli occhiali di Godard. Ma i film in realtà non finiscono mai. E gran parte della filmografia di Linklater ne sono una dimostrazione. L’hommage di Nouvelle Vague fatto da Linklater al cinema è tanto bello, oggi fondamentale, proprio come quello sulla musica di School of Rock. E ha un cast di giovanissimi, bravissimi attori, a cominciare da Guillaume Marbeck e Zoey Deutch nei ruoli di Godard e Jean Seberg. Non è mai snob, ma alla portata di tutti. Mai una lezione. Ma un racconto di storia del cinema che ha l’incanto di una fiaba piena di gioia e di vita.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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