nouvelle vague nouvelle

la rassegna del Filmstudio: non una retrospettiva, ma una rassegna che mostra l'attualità, il farsi presente di un modo di fare cinema che continnua a vivere nella contemporaneità

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Tutto, meno che una retrospettiva, e non è un commento negativo. C’è un significato neanche troppo nascosto nella parola “retrospettiva”, in questo vedere all’indietro, quasi ad attestare che qualcosa c’è stato nel passato ma ora non è più. Ogni retrospettiva nasconde il pericolo di “museificare” ciò che vuole omaggiare, riproporre. Ma può essere anche – ed è qui che la parola riacquista un senso positivo – un riattraversamento, una riattualizzazione, un riscoprire l’attualità di un movimento o, come nel caso della Nouvelle vague francese, di una concezione del cinema.
Riflessioni queste che nascono dalla visione della retrospettiva sulla Nouvelle Vague che si è svolta a Roma (al Filmstudio) dall’8 maggio al 2 giugno; quasi un mese di proiezioni in cui vedere o rivedere dai film manifesto del movimento francese degli anni sessanta (“A bout de souffle”, “Les quatre-cents coups”), passando per le opere di Rohmer, Rivette, Chabrol, Doniol-Valcroze, Kast, Resnais, Marker, Demy, Malle, Rozier, Varda, fino a rintracciare diramazioni, filiazioni e affinità con Rossellini (naturalmente), Astruc, Bresson, Cocteau, Renoir, Bergman, Eustache, Garrel.

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Rassegna enorme, certamente la più completa (come dice il catalogo) che si sia mai tenuta a Roma. Ma proprio per questo rassegna aperta, che ha permesso di rivedere non tanto un frammento di una storia del cinema, un tassello importante della storia dei movimenti cinematografici, quanto saggiare, della Nouvelle Vague, una forza attuale, una concezione del fare cinema tuttora operante.
Vedere o rivedere la straordinaria lezione di messa in scena dei corpi, degli spazi e dei desideri in “Suzanne Simonin, la religieuse de Diderot”, o la deriva senza fine di “Paris nous appartient”, entrambi di Rivette, per poi uscire e andarsi a vedere “Chi lo sa?”, ultima fatica dello stesso Rivette (presentato a Cannes nel 2001 e uscito proprio in questi giorni in Italia), significa attivare un corto circuito, in cui la memoria della Nouvelle Vague diventa memoria attiva, non nostalgia di un passato, ma forza creatrice di un nuovo cinema. Esercizio di sincronismo temporale, quello che ha permesso di vedere insieme Rossellini, Godard e Garrel; esercizio che riscopre lo spirito cinefilo della stessa Nouvelle Vague, per la quale il cinema non si sviluppava secondo scuole, tendenze e movimenti, ma veniva riscoperto tutto insieme come linguaggio, come modo nuovo di vedere il mondo.

I registi-critici dei “Cahiers”, ad esempio, con le loro dichiarazioni d’amore per Barnet o Renoir, Rossellini, o Lubitsch, teorizzavano il cinema come luogo di invenzione di un linguaggio, come messa in opera di uno sguardo al di là della distinzione tra presente e passato, tra modernità e tradizione. In questa visione, che la Nouvelle Vague teorizza (“il cinema, diceva André Bazin, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda con i nostri desideri”, dice Godard nei titoli di testa de Le Mépris, citando in realtà una frase di Michel Mourlet), non si parla mai di “storia del cinema”, ma di un cinema che è sempre presente, che ad ogni visione rivendica la propria attualità, la possibilità sempre aperta di creare uno sguardo. Ecco quindi che scorrono le immagini di un cinema che coglie le frammentazioni della modernità, sia attraverso la capacità della macchina da presa di seguire i flussi della città, le dispersioni di esistenze inquiete – “Le signe du Lion” di Rohmer, i primi film di Godard – sia per mezzo di uno stile che stravolge i codici e si scopre alla ricerca di un tempo della vita, del presente del passato e della memoria – “La Jetée” di Marker, “Hiroshima mon amour” di Resnais – . La rilettura dei generi di Chabrol o di Truffaut si interseca allora con le immagini estreme di George Franju de La tête contre les murs o con i musical atipici di Jacques Demy.
Film che osano mettere in scena i corpi come macchine di cinema, come faceva Rossellini con la Bergman in “Europa 51” o Renoir con Michel Simon in “Boudou sauvé des eaux”. Percorsi che potrebbero continuare film dopo film (sono 56 i titoli della rassegna) per confluire nelle ultime immagini della rassegna quelle dello splendido film deriva – esito estremo, forse, della Nouvelle vague – che è “La maman et la putain” di Eustache. Ma ognuno di questi percorsi, ed è questo il merito della rassegna, non fa altro che sottolineare la vitalità non tanto dello stile, o della poetica di questo o di quell’autore, quanto di un cinema che si vuole ancora, prepotentemente, contemporaneo.

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