Nowhere People, di Ma Zhandong

Sulla scia di Wang Bing, il cineasta articola il racconto dei profughi cinesi tra microstorie e piccole epifanie, a cui la bassa definizione dona un’umanità deflagrante. Dal Festival Mente Locale

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Tra il “Grande balzo in avanti” del ’58 e la Rivoluzione Culturale di fine anni ’60, le politiche agrarie di Mao sono state generalmente indagate dal cinema cinese di finzione attraverso una prospettiva interna. Tanto che in grandi opere come The Blue Kite (1993), Vivere! (1994) o Shanghai Dreams i fenomeni di migrazione di massa dai centri urbani verso le zone più agresti del paese, per quanto forieri di verità assolute e drammatiche, sembrano portarsi dietro sempre una certa miopia di visione. Come se le conseguenze delle politiche maoiste fossero confinate solamente all’interno del perimetro della Cina Continentale. Ma estendendo di poco lo sguardo, si può andare oltre le verità consolidate, e osservare a 360 gradi le realtà di spostamenti migratori che da nazionali, risultano essere sempre più transnazionali. Secondo un travalicamento di confini traumatico e costante, che questo Nowhere People declina nei termini di un vero e proprio displacement di massa: ovvero di un dislocamento in un luogo-altro di una fetta importante della popolazione cinese, che al giorno d’oggi mostra ancora l’irreversibilità dei suoi terribili effetti.

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Operando allora in una cornice contemporanea, il documentarista Ma Zhandong si getta a capofitto nelle ramificazioni moderne dei fenomeni migratori della Rivoluzione Culturale: non siamo più in Cina, ma nello “Stato di Wa”, un “enclave” sovrano ed indipendente incluso nei confini del Myanmar, in cui centinaia di migliaia di migranti cinesi sono stati costretti a rifugiarsi nel tempo per sfuggire alla carestia generata dalle politiche maoiste. Il loro compito è quello di lavorare alle coltivazioni di oppio, un requisito necessario per assicurarsi una certa libertà di azione e pagare le tasse ad un governo in cui naturalmente non si riconoscono. Ma per i cinesi di stanza in questo territorio, nessun luogo, nazione o paese può veramente riflettere un senso di appartenenza reale. Perché ormai sono perlopiù dei profughi, persone senza identità né radicamento culturale, condannate per l’eternità a vagare nella desolazione di terre ignote ed estranee. Sono appunto delle “Nowhere People”, apolidi lontani dalla patria, a cui non sperano neanche più di fare ritorno.

E sulla scia del suo ideale mentore Wang Bing, Ma Zhandong arriva alla “verità” attraverso una purezza di sguardo spiazzante. Per raccontare la quotidianità di persone immerse in una permanente condizione di stasi, non servono perciò estetismi né vizi formali. Conta solo la spontaneità del mezzo. L’immacolatezza di una visione priva di sovrastrutture alcune, che come in Ta’ang e Dead Souls conduce il racconto verso la scoperta dell’autenticità. Di chi guarda, e di chi è oggettivamente guardato. In una situazione, che per quanto statica, non smette di esercitare le sue brutali conseguenze sulla pelle di corpi-vittime. E in tal senso, non è un caso che Nowhere People sia stato girato proprio tra il 2005 e il 2020. Ovvero nel corso di un periodo che si presenta quale fine di un’epoca, e principio di una nuova. Finché la contadina Si Limei e la sua estesa “famiglia” di conoscenti lavorano all’oppio, trovano di fatto una dimensione in cui sublimare la propria effimera esistenza. Ma in seguito alla messa al bando delle piantagioni nel 2006, tutto cambia. A quel punto il film si nutre esclusivamente di una serie di piccole epifanie (di nuovo Wang Bing!), di micro-storie che le imperfezioni della bassa definizione esaltano a paradigmi interpretativi del quotidiano. In cui la rimemorazione del passato diventa l’unico appiglio per rimanere aggrappato ad un senso di realtà. Anche se di essa ormai non resta che il fragile sogno.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
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