Oasis: Supersonic, di Mat Whitecross
Ripercorre le vicende della band e in particolare dei fratelli Gallagher dichiarandosi dalla parte dell’esistenza “maledetta”e non della musica. Ma perde di vista l’obiettivo. Da lunedì al cinema.
Non si può mettere in discussione che gli Oasis siano stati il simbolo musicale di più di una generazione. Sarebbe inutile e controproducente elencare titoli e testi che hanno bagnato guance, fatto stare alzati fino a notte fonda o semplicemente sorridere in maniera ebete. Oasis: Supersonic, il documentario di Mat Whitecross, calca pedissequamente questa antifona, ma senza trarne i dovuti e giusti vantaggi. Si parte dal mega concerto di Knebworth, 250.000 persone, 2 milioni in attesa di entrare: un’aurora boreale in piena Gran Bretagna. La band ha segnato un passo negli anni ’90, così come i Nirvana, senza star qui ad elencare differenze e/o somiglianze. In tre anni hanno realizzato un successo su scala mondiale, un record probabilmente imbattuto. Quel che Whitecross prova a fare è capire perché la scintilla sia scoppiata nella periferia di Manchester e si sia incarnata proprio nei membri della band. Purtroppo al suo occhio fanatico e inquisitore, la musica, il passaggio di essa, la svolta del gruppo in quanto fautore di note, è evidentemente sfuggita. Si tenta di acchiappare tutto finendo malauguratamente per cadere.
Tutto, praticamente tutto si incentra sulla vita, i diverbi, le risate dei fratelli Gallagher, Noel e Liam: due personalità antitetiche, troppo spesso in contrasto. Quello che si assapora di più è il più giovane Noel, forse perché è la mente dietro la voce del fratello maggiore. Un ragazzo curioso, solitario, belligerante, una molotov di emozioni pronte a far saltare in aria strade, parchi, quell’ovunque in cui si può urlare a pieni polmoni musica sentita. Se la grandezza, mista a dissolutezza e cattive abitudini si fosse nel film accoppiata proprio all’animo gentile di Noel, il risultato sarebbe stato diverso. Probabilmente i Gallagher, in quanto produttori, hanno volutamente alimentato il fuoco dell’inafferrabilità, della maledizione, di quel iter alternativo/baudelariano che oramai ha più che stancato.
Sebbene non manchi di materiale video, o testimonianze in genere, è evidente la volontà, lo sforzo di creazione di una leggenda. La presenza della pellicola ha agevolato questa operazione, lasciando il passo ad una memoria epica, mitica, ma quanto mai rinchiusa in se stesso. Una barriera inespugnabile con cui dover fare i conti perché la “verità” è quella affermata dal documentario. Il fan della band forse apprezzerebbe perché curioso, avido soprattutto di retroscena, ma si smarrirebbe in mezzo ad un reality kitsch di MTV dove i contenuti hanno preso il largo. Si sarebbe sperato in un outcome simile a quello di Amy, di Asif Kapadia, qui malauguratamente solo in veste di produttore.
L’opera di Whitecross è troppo vicina ad uno stampo che tutti pressoché conosciamo. Le donne, l’alcol, la droga, gli stravizi, l’arroganza, tutto concesso, ma è difficile credere che l’altrove debba restare relegato a qualche parolina di circostanza detta in maniera solenne e pseudo-tragica. La soluzione migliore è considerarlo un lavoro manieristico e caricaturale di Warhol/Luhrmann.
Titolo originale: Supersonic
Regia: Mat Whitecross
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 122′
Origine: UK, 2016