Occupied City, di Steve McQueen

Tra le proiezioni speciali di Cannes 76, il documentario monstre di McQueen ragiona sull’evanescenza della capacità di lettura del passato, della realtà storica, nella nostra epoca dominata dai dati

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Il documentario monstre di Steve McQueen, che lambisce le quattro ore di durata, riconnette lo sguardo dell’autore con le esperienze nell’arte contemporanea di cui fu esponente cruciale prima di esordire al cinema con Hunger. Soprattutto, Occupied City recupera il lavoro sugli scorci metropolitani (poi confluito nella città di Shame) e le aperture possibili del testo già approntato in opere come il bellissimo corto Blues Before Sunrise.
Occupied City mostra vedute urbane della Amsterdam dei nostri giorni, su cui una voice over recita delle informazioni relative a storie accadute in quello stesso angolo di città, durante l’occupazione nazista. Se eliminassimo la traccia audio relativa alla speaker, il film perderebbe qualsiasi connessione con le memorie di guerra che ne costituiscono l’ossatura (tratte dal libro “Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945” di Bianca Stigter), e si trasformerebbe in una versione up-to-date di esperimenti come Berlino Sinfonia di una grande città, per dirne uno. E già questa è un’illuminazione potente, in un’epoca in cui il dato storico, e l’idea stessa di passato, vengono percepiti come sempre più sconnessi dalla realtà tangibile e quotidiana del nostro presente perpetuo. L’intuizione che Occupied City possa essere letto come metafora dello scollamento tra una verità storica e l’indefinitezza del dato sociale contemporaneo è rafforzata da come McQueen si focalizzi soprattutto su vicende e aneddoti che riguardano falsari di documenti, fiancheggiatori della resistenza, rifugi clandestini, pubblicazioni antifasciste, missioni di controspionaggio: in qualche modo, il documentario diventa così anche una riflessione sulla nostra epoca governata dal traffico di dati, dal sovraccumulo di informazioni, dalla tracciabilità perenne. Tutte dimensioni della cosiddetta infocrazia che però viaggiano in una sorta di spaziotempo parallelo, per l’appunto virtuale, aleggiando sul reale giusto il tempo di un attimo.
McQueen sembra cercare i segni del passaggio della guerra su Amsterdam, sulle sue piazze, i suoi palazzi e i suoi appartamenti; e insieme voler suggerire che la resistenza è innanzitutto nello sguardo, anche quando le prove sono state cancellate, i luoghi della testimonianza demoliti.

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Da questo punto di vista, è un peccato che Occupied City azzardi, in un paio di occasioni, un ardito e malfermo parallelismo tra l’occupazione di Amsterdam durante la Seconda Guerra Mondiale e la situazione dei cittadini durante il lockdown pandemico, periodo in cui il film è stato girato – la pericolosa analogia ci regala però almeno una delle migliori sequenze del documentario, il drone che attraversa la città un attimo prima del coprifuoco notturno del 2020, passando dai marciapiedi al cielo stellato capovolgendo la prospettiva quasi come il finale di Altantide di Ancarani, per restare in ambito videoartistico.
Questa fuoriuscita dal rigore compositivo con cui il regista costruisce le sue vedute su incroci di strada, bivacchi di giovani rapper free style, e angoli più noti della metropoli come il red light district, è molto meno felice in un’altra sequenza di “rottura” dell’impianto, il bislacco e un po’ cringe montaggio di anziani in fila per la prima dose del vaccino anti-covid, fasciato da Golden Years di David Bowie.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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Il voto dei lettori
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