Of Fathers and Sons, di Talal Derki

Il cinema, ancora una volta, è costretto a fare a meno di ogni etica, accantonare ogni morale per raggiungere il proprio scopo. In sala fino al 25 settembre

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Mettiamo da parte ogni turbamento che Of Fathers and Sons, il film di Talal Derki, ci infligge e restiamo solidali alla figura del regista artista coraggioso e perseverante. Per due anni Derki ha vissuto insieme ad una famiglia jihadista di cui è riuscito a conquistare la fiducia. Della famiglia vedremo il padre Abu Osama e i due figli Osama il maggiore e il più piccolo Aymal, nessuna inquadratura prevede la madre che pure in un unico fuori campo, è stata chiamata in gioco.
I pensieri e i comportamenti di Abu Osama non costituiscono terreno comune con il regista, ma il gioco ha retto – si ritiene – nella opposta consapevolezza. Abu Osama, inneggia alla guerra di religione, educa i figli a sparare, li porta con sé quando disinnesca le mine e in una di queste attività resterà gravemente ferito perdendo un piede, ma nulla potrà fermarlo, sicuramente non la ferita che costituisce anzi una ragione in più per fare la guerra santa. Ma queste condizioni estreme, non hanno neppure impedito al coraggioso Talal Derki di convivere per due anni con quella famiglia, tra le stesse mura per documentare uno spaccato che a tratti ha dell’incredibile, e restituendo una materia viva che si è formata sotto l’occhio della cinepresa. Qualcosa di più e qualcosa che sembra trascendere il cinema del reale in una specie di realtà aumentata in cui è del tutto fuori luogo parlare di tolleranza o dialogo. Il fanatismo assorbe ogni razionalità, la esclude eliminando ogni altra verità.
Derki documenta i dialoghi, ma su tutto l’approccio di Abu Osama nei confronti dei figli. Una incessante educazione alla guerra, un costante odio nei confronti di quelli che chiama “nemici di Dio”, i “maiali oppositori”. Al fondo la rigida cieca osservanza di regole estreme e inconciliabili con qualunque tollerante convivenza sociale. È beffarda la sua espressione, quando, rivolgendosi ad un suo sodale, parla delle donne, contento che i figli potrebbero

sparare ove queste non dovessero seguire i dettami rigorosi della religione. In questa medesima prospettiva vanno lette le parole di ringraziamento che il protagonista rivolge ai martiri dell’11 settembre che hanno compiuto la destante strage delle Due torri a New York, e in questo stesso senso si chiude prospettiva futura per i due figli, totalmente soggiogati al volere paterno, ma soprattutto si interrompe ogni dialogo e con questo anche ogni speranza.
C’è poi l’dea del martirio proprio e altrui come forma estrema, sublime e perfino invidiabile di purificazione e di riconoscimento di quell’atto non tanto come forma di un eroismo politico, quanto, invece, di una estrema fedeltà al volere di Allah che si concretizza nella forma più alta della fede.
Il film di Derki, scavando in questo clima di costante odio verso il nemico, finisce con il raccogliere nell’ambiente del suo set familiare solo la cultura di esaltazione della morte nella quale si vive e alla quale, in fondo Abu Osama aspira per se e la sua famiglia in una sorta di razionale e freddo nichilismo che risulta inconcepibile. Un clima che costituisce elemento fondante dell’educazione poco più che infantile per i ragazzini destinati alla guerra santa là nei campi di addestramento dove i bambini-soldato, tra i quali Osama il figlio di Abu Osama, orgoglioso della scelta del ragazzino, si allena a concepire la morte come atto dovuto in difesa di quell’esclusivo ed escludente fanatismo religioso, piuttosto che come il fratello più piccolo stare tra i banchi di scuola con gli altri coetanei ad imparare a memoria le poesie. E si fa più amara ogni considerazione nel momento in cui Derki entra in prima persona, quando il film si apre, ma soprattutto si chiude con le sue parole disperate, di chi non riconosce più il proprio Paese e ne piange la rovina. Resta la domanda che lo riguarda e con la quale ci si interroga su come si vivono i rischi derivati dalla circolazione del film.
Un’opera che possiede una forte natura espressiva, il cui racconto va ben al di là di quello che il titolo potrebbe fare presumere. Non è più, infatti, di padri e figli che si deve parlare, ma di bambini combattenti, di bambini educati a guardare alla morte come un premio, di ragazzini che lavorano per sapere come meglio annientare il nemico. Non vale più alcuna pedagogia, i diritti dell’infanzia, restano purtroppo una non credibile utopia. Sembra aleggiare un dolore comunque nelle immagini di Derki, una sofferenza che sembra invincibile, che si legge in quell’incertezza in cui si consumano quelle vite o negli occhi dei due ragazzini, cui è negata ogni scheggia di felicità, che si legge nei gesti già stanchi delle giovanissime reclute nel campo di addestramento.
Of Fathers and Sons, titolo amarissimo e forse perfino commovente, nella sua amorevolezza che qui è ormai priva di ogni vero contenuto, ha ricevuto ampi e meritati riconoscimenti. Il regista siriano ha saputo utilizzare la cinepresa, quasi senza filtri morali o deformanti della realtà e questa volta, non sono tanto le immagini che lasciano lo sconcerto, quanto le parole, i dialoghi, quel riflesso del pensiero che costantemente assilla la cerchia familiare e gli amici del protagonista. Il cinema, ancora una volta, è costretto a fare a meno di ogni etica, accantonare ogni morale per raggiungere il proprio scopo, con la forza della volontà, con il coraggio e forse con la mano che trema nel sostenere il peso della cinepresa.

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Titolo originale: Kinder des Kalifats
Regia: Talal Derki
Distribuzione: Zenit Distribution
Durata: 99′
Origine: Germania, USA, Siria, Libano, Olanda, Qatar, 2017

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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