
Visione del cinema come flusso emotivo e testimonianza. Senza autentici protagonisti, ma personaggi che entrano ed escono dal quadro visivo. Non è un film contro l’Iran, Offside di Panahi, ma anzi un piccolo racconto sulle possibilità di un nuovo Iran, un atto di speranza per una riconciliazione comunitaria e collettiva
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L’8 giugno del 2005 a Teheran si gioca l’incontro di calcio valevole per le qualificazioni ai mondiali 2006 Iran-Bahrain. È una partita decisiva per gli iraniani, a cui basta un pareggio per ottenere una terza storica qualificazione alla massima competizione calcistica. Non tutti , però, possono seguire allo stadio l’evento. Per le donne iraniane c’è una proibizione che impedisce loro di poter vedere una partita di calcio in compagnia di altri uomini. Jafar Panahi, qui regista, sceneggiatore, montatore e produttore, spinge l’acceleratore su un pedinamento di zavattiniana memoria per raccontare quasi in tempo reale uno spaccato lucido, non privo di ironia e tenerezza, sulle peripezie che le donne protagoniste compiono per assistere alla partita. Sin dall'incip il film di Panahi ripercorre la tradizione errante del cinema iraniano con un anziano uomo alla ricerca della figlia che vediamo girovagare dentro Teheran, prima all'interno di un'automobile e poi su un autobus, con l'obiettivo di trovarla e impedirle di andare allo stadio. E' sempre all'insegna di una visione del cinema come flusso emotivo e testimonianza l'opera di Panahi. Senza autentici protagonisti, ma personaggi che entrano ed escono dal quadro visivo. Del resto non è un film contro l’Iran, Offside di Panahi, ma anzi un piccolo racconto sulle possibilità di un "nuovo" Iran, un atto di speranza per una riconciliazione comunitaria e collettiva (come indica esplicitamente l'intenso finale liberatorio).
Come nelle opere precedenti del regista – su tutte Il cerchio ovviamente, e Lo specchio – le donne continuano a essere il materiale umano privilegiato da Panahi per comporre il suo affresco immersivo sul mondo iraniano contemporaneo. Il calcio diventa l’ideale metafora di un paese a suo modo schizofrenico e diviso tra una modernizzazione sempre più tangibile e il contemporaneo irrigidimento verso categorie sociali profondamente legate al passato. “Un drammatico rapporto tra potere e cultura” come scrive Emiliani nel suo editoriale che, nonostante l’Orso d’argento per la regia vinto nel 2007 al Festival di Berlino, non ha potuto godere di una distribuzione in patria, né – e la cosa non può che sorprenderci, ancora una volta, negativamente – in Italia.
Jafar Panahi è entrato recentemente nelle prime pagine di giornali e opinione pubblica per esser stato arrestato il 2 marzo 2010 in seguito alla sua partecipazione pubblica ai movimenti di protesta contro il regime iraniano. Scarcerato il 24 maggio su pagamento di una cauzione e in seguito alle costanti sollecitazioni dei movimenti a difesa dei diritti umani e del mondo del cinema internazionale, Panahi è insieme ad Abbas Kiarostami – di cui è stato assistente e collaboratore – uno dei più alti esponenti della cinematografia iraniana che negli anni Novanta s’è segnalata a livello mondiale per la sua propensioneall'indagine sociale e psicologica, e per un approccio formale profondamente "neorealista". L'esordio dietro la macchina da presa è datato 1995. Si tratta de Il palloncino bianco, che al Festival di Cannes vince la Caméra d'or. La consacrazione internazionale arriva nel 2000 con il Festival di Venezia, dove vince il Leone d'oro con Il cerchio, mentre nel 2003 è la volta di Oro rosso, che si aggiudica a Cannes il premio della giuria Un certain regard.
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