Oldboy, di Spike Lee
Il remake, sembra un'altra risposta, un'ulteriore strategia per venir fuori da una crisi personale e collettiva. E perciò la decisione di rifare qualcosa, la scelta di aderire a una pratica, sembra molto più importante del cosa rifare, del confronto con l'originale
Ed eccoci al remake. Lo attendevamo come un effetto collaterale previsto. Spike Lee sembra vivere, più di tanti altri, la crisi sulla propria pelle (nera). Oltre la 25ª ora. I problemi dell'indipendenza, l'ipotesi di lavorare all'interno dell'industria e dei solidi meccanismi di genere (Inside Man), con un piede dentro e uno fuori dal mainstream, la difficoltà, dopo Miracolo a Sant'Anna, nel trovare nuove storie da raccontare con la solita furia politica, la via del documentario come strategia per uscire dall'impasse, personale e collettiva.
In fondo, Lee sembra vivere la stessa parabola di Oliver Stone. Due registi dichiaratamente politici, sempre pronti all'intervento critico sul presente. Ma anche due autori consapevoli più per istinto, che per effettiva lucidità, delle trasformazioni in atto nel mondo reale e in quello delle immagini. Feriti a morte nella loro capacità di leggere le cose e per questo ormai un passo indietro rispetto al presente e al futuro. Tranne quando, nei documentari, riescono a registrarsi sulla stessa lunghezza d'onda del tempo.
Ecco, il remake, sembra un'altra risposta, un'altra strategia per venir fuori dalla crisi, approvata ovviamente dagli usi e i costumi di un cinema in debito d'ossigeno. E perciò la decisione di rifare qualcosa, la scelta di aderire a una pratica, sembra molto più importante del cosa rifare, del confronto con l'originale, qualsiasi problema di fedeltà e tradimento rispetto allo spirito o alla storia.
Certo, l'ombra del successo planetario e trasversale dell'Oldboy di Park Chan-wook resta ingombrante. Ma il pericolo del debole calco è facilmente scampato. In fondo, la complessità della trama, intessuta sulle ossessioni di colpa, vendetta e (impossibile) redenzione, rappresenta la parte meno originale del film di Park Chan-wook, rispetto al lavoro maniacale sulle immagini e la rappresentazione della violenza, aldilà delle valutazioni di merito sulla necessità di tale sovraccarico estetico. Lo sceneggiatore Mark Protosevich e Spike Lee, invece. sembrano riassegnare una preminenza decisiva al meccanismo narrativo, a partire dalla più marcata caratterizzazione dei personaggi e dei rapporti, dalla precisa indicazione delle svolte e delle linee di direzione, fino alla chiusura del cerchio. Un'operazione di "normalizzazione", in apparenza (ma, del resto, quanto può essere normale il cinema di Park nel panorama coreano?), in cui l'operazione sul linguaggio viene ricondotta all'interno degli schemi del genere. E in questo senso, anche il film di Spike Lee sembra inseguire l'eccesso, seppur di segno del tutto differente rispetto all'originale: un'esasperazione dei particolari più brutali e disturbanti della vicenda, appena mitigata da un'ironia macchiettistica o dai rari momenti di stilizzazione (il bel combattimento "citazione"). Quello che si perde in consapevolezza estetica, viene compensato da una densità materica esplosiva, da una fisicità dell'azione e delle passioni costruita sul corpo in continua trasformazione di Josh Brolin, che recita con la pancia prima ancora che con il volto.
Le ferite, esteriori e interiori, non sono più rimarginabili. E sono il segno tangibile di uno strappo trovato tra le pieghe delle convenzioni del cinema americano. Ma il fatto è che l'eccesso sembra essere, ormai, connaturato allo sguardo di Lee: è lo squilibrio che caratterizza i suoi film sin dai tempi di Miracolo a Sant'Anna e che, in fondo, è una conseguenza naturale e non controllata del suo cinema "sporco" delle origini. Per questo l'irriverenza di certi toni e soluzioni, la "rottura" appare, in qualche modo, accidentale.
L'aspetto più interessante del film, in realtà, ciò che ci riporta a una dimensione politica, sta nell'intuizione che la vera prigione che ingabbia Joe Ducett e ne determina il destino è fatta d'immagini, è disegnata da un complesso apparato spettacolare, solo in parte determinato dal piano macchinoso di Adrian Pryce. In fondo la colpa di Joe è l'aver raccontato quello che ha visto, senza rendersi conto delle implicazioni morali e delle conseguenze. Il non essere stato capace di filtrare e criticare la superficie delle apparenze. E per questo lo strumento del contrappasso non è più l'ipnosi, come in Park, ma un crescendo hi-tech di pubblicità, TV all news, sistemi di sorveglianza, immagini proliferanti, grandi fratelli, smartphone. La manipolazione delle coscienze è una questione di sguardo: la condanna a non veder altro che il fantasma della verità.
Titolo originale: id.
Regia: Spike Lee
Interpreti: Josh Brolin, Samuel L. Jackson, Sharlto Copley, Elizabeth Olsen, Hannah Simone
Origine: USA, 2013
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Durata: 104'