Oleg e le arti strane, di Andrés Duque

Straordinario documentario su Oleg Karavaychuk, compositore cresciuto durante il regime staliniano che allo studio del piano ha dedicato la vita, legato alle musiche di Kira Muratova e Parajanov

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Il regista Andrés Duque è riuscito a portare sul grande schermo, poco prima della morte, una delle figure più originali del panorama musicale russo, Oleg Nikolayevich Karavaichuk, leggendario pianista autore di colonne sonore per film e teatro. Sono emblematiche in tal senso le sue collaborazioni con Kira Muratova a Sergei Parajanov, nomi di spicco della cinematografia sovietica.

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Quello che emerge dal documentario è un individuo lontano anni luce dagli standard considerati normali, assorbito dall’arte, un rapporto inscindibile, totalizzante, spina dorsale della sua personalità. Una vita dedicata alla musica a partire dall’infanzia, lui cresciuto sotto il regime staliniano, per cui suonò anche, ed allievo del Conservatorio di Leningrado, lo strumento che gli ha fornito un lasciapassare attraverso gli anni bui dell’Unione Sovietica evitandogli il confino. Fin dalle prime riprese all’interno del Palazzo dell’Ermitage, luogo consegnato alla storia da Aleksandr Sokurov nel galleggiare senza sosta dell’Arca Russa e di cui invece il regista venezuelano decide di esaltare l’immobile meastosità, risulta chiaro il fervore che lo anima, reso esplicito dall’abbandono fiducioso all’arte come rifugio per i mali dell’anima e del corpo, dallo straordinario potere taumaturgico.

Imagen Quay (103828197)-kzuH--644x362@abc__1516728229_93.61.149.153Un uomo, Oleg, dalle dita piegate dall’artrosi simili a protesi biomeccaniche usate per violentare letteralmente il pianoforte e risvegliare il turbamento, nel rifiuto retrattile della consonanza destinata a soccombere alla dissonanza, all’inavvertita esplosione della vita, simile in alcuni passaggi ad una buffa marionetta diabolica intenta a martellare il giocattolo preferito.

Lucido nella condanna di tanti artisti contemporanei colpevoli di inseguire l’ambizione, la visibilità a discapito di una motivazione causata da un’esigenza. L’orgogliosa rivendicazione di appartenenza ad un club esclusivo composto da un’elite intellettuale alla quale era riservato un’intera zona di San Pietroburgo immersa nella natura, poeti, pittori registi e quant’altro dal quale i profani, tra cui vanno annoverati gli adoratori del dio denaro mossi da disprezzabile avidità, estetico orrorifico dell’immaginario contemporaneo, venivano tenuti a debita distanza.

Una trama che come l’indomito suono del pianoforte non è mai nostalgica semmai vigile di un imperturbabile straniamento, una corda pizzicata in un perpetuo vibrare, in un flusso ininterrotto di note fuggite dallo spartito, disordinate ed autosufficienti neanche fossero uscite da un complesso jazz. Duque sceglie la strada di un presente che diventa memoria per trasmetterne l’energia emanata dal compositore, seguendo le rughe delle mani segnate dal tempo, come il corpo, e che il tempo comunque sembrano trascurare, finite in un limbo avvolto da una musica ipnotica, espulse dal mondo dell’omologazione per le caratteristiche aliene.

 

Titolo originale: Oleg y las raras artes
Regia: Andrés Duque
Interpreti: Oleg Karavaychuk
Distribuzione: Lab80 
Durata: 70′
Origine: Spagna, 2017

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