Omaggio a Buster Keaton

Venerdì 29 gennaio

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CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

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Venerdì 29 gennaio alle ore 21 presso la sede di Distretto Cinema, in via Ragusa 23 a Torino,  verrà presentato l’omaggio a Buster Keaton, uno dei più grandi comici del muto, con analisi e proiezioni dei suoi film.

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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La serata è curata da Grazia Paganelli, programmatrice del Museo Nazionale del Cinema di Torino, redattrice di "Filmcritica" e collaboratrice delle riviste "Panoramiche", "Il Ragazzo Selvaggio" e "Sentieri Selvaggi".
Ingresso libero.
 
 
Buster Keaton: il comico serio
di Grazia Paganelli
 

Buster Keaton è diventato famoso come “l’uomo che non ride mai”. Così, infatti, lo aveva definito la pubblicità cinematografica degli anni Venti, facendo leva sull’aspetto più rappresentativo della sua recitazione. L’espressione impassibile, lo sguardo quasi impietrito, la comicità lunare che andava contro corrente rispetto ai contemporanei Chaplin e Langdon, sono gli ingredienti più evidenti di un’arte che ha sempre trovato il giusto successo di pubblico (i suoi film incassavano spesso quanto i film di Chaplin) senza mai rinunciare alla sperimentazione portata avanti sul piano della recitazione e, successivamente, della regia (e non è un caso se i surrealisti lo amarono tanto). La sua prima apparizione sullo schermo è per il film "The butcher boy" (1917) di Arbuckle, cortometraggio che ritrova lo schema semplice dello slapstick, cui Keaton si ispirerà per le opere successive.
L’esordio dietro la macchina da presa, invece, avviene con "The high sign" (1920), cortometraggio di due bobine (quasi tutti i film in questa prima fase sono diretti con la collaborazione di Eddie Cline) la cui uscita viene posticipata da Keaton all’anno successivo perché insoddisfatto del risultato. Più noto il successivo "One week" (1920) che segna anche il primo passo verso la conquista di una narrazione più fluida e libera dalle convenzioni del genere, come dimostra il lieto fine ambiguo che lascia non pochi interrogativi sulla felice risoluzione della vicenda. A partire proprio da questo film si insinua una sorta di tensione catastrofica che dimostra la lungimiranza del regista nel descrivere la realtà. Il suo sguardo geometrico e razionale su un mondo, invece, contraddittorio, da solo basta a far emergere l’aspetto drammatico e paradossale nascosto dietro l’apparenza.
Dodici i lungometraggi da lui girati tra il ‘23 e il ‘29 a partire da "The three ages" (1923; "Senti, amore mio", oppure "L’amore attraverso i secoli") pensato per essere una parodia di "Intolerance" di Griffith con l’analoga soluzione degli episodi ambientati nelle differenti epoche storie, a "Our hospitality" (1923; "Accidenti… che ospitalità" oppure "La legge dell’ospitalità") diretto in collaborazione con Jack Blystone, dove la realtà viene descritta con accuratezza e attenzione, ma trasfigurata come attraverso uno specchio deformante che ne mette in rilievo la rilettura critica e disillusa. Non più comicità frammentaria e caricaturale ma una storia compiuta e coerente con personaggi descritti a tutto tondo e non ridotti ad una generica stilizzazione. Si pensi ai due protagonisti di "The navigator" (1924; "Il navigatore", diretto in collaborazione con Donald Crisp) soli e alla deriva su una nave abbandonata dall’equipaggio, oppure a "Sherlock jr." (1924; "La palla n. 13" oppure "Calma, signori miei!"), in cui si affronta il tema del difficile inserimento dell’uomo nella moderna società, senza tralasciare di riflettere sul cinema e sui meccanismi della finzione (discorso che sarà ripreso e ampliato in "The cameraman" (1928; "Io…e la scimmia"), di Edward Sedgwick, con particolare riferimento alla possibilità del cinema di manipolare i fatti reali nel momento della loro riproduzione meccanica). Sempre la civiltà della macchina e i difficili rapporti con essa, sono i protagonisti di "The general" (1926; "Come vinsi la guerra" diretto in collaborazione con Clide Bruckman): durante la guerra di Secessione un macchinista sudista diventa eroe suo malgrado, per una serie di coincidenze e di casualità che travolgono l’impassibile calma del personaggio.
Contemporaneamente Keaton interpreta anche film diretti da altri registi nei quali riesce a portare avanti la poetica dell’uomo imperturbabile, spettatore del mondo, che osserva con distanza critica gli accadimenti quotidiani. Si possono citare, ad esempio, "Steamboat bill" (1928; "Io…e il ciclone") di Charles F.Reisner e "Spite marriage" (1929; "Io…e l’amore") di Edward Sedgwick. Con l’avvento del sonoro subentra la crisi dalla quale non si risolleverà più, fatta eccezione per alcune brevi interpretazioni. Lo ritroviamo, ad esempio, in "Sunset boulevard" (1950; "Viale del tramonto") di Billy Wilder, "Limelight" (1952; "Luci della ribalta" di Chaplin) e "The adventures of Huckleberry Finn" (1960; "Le avventure di Huckleberry Finn"). L’ultimo atto della sua grande poesia d’attore avviene con "Film" (1965) diretto da Alan Schneider scritto per lui da Samuel Beckett.

 

 
 
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    Torino, Distretto Cinema, 29 gennaio

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    Venerdì 29 gennaio alle ore 21 presso la sede di Distretto Cinema, in via Ragusa 23 a Torino, verrà presentato l’omaggio a Buster Keaton, uno dei più grandi comici del muto, con analisi e proiezioni dei suoi film. La serata è curata da Grazia Paganelli, programmatrice del Museo Nazionale del Cinema di Torino, redattrice di "Filmcritica" e collaboratrice delle riviste "Panoramiche", "Il Ragazzo Selvaggio" e "Sentieri Selvaggi". Ingresso libero. Info: www.distrettocinema.com.

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    #SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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    Buster Keaton: il comico serio, di Grazia Paganelli

     

    Buster Keaton è diventato famoso come “l’uomo che non ride mai”. Così, infatti, lo aveva definito la pubblicità cinematografica degli anni Venti, facendo leva sull’aspetto più rappresentativo della sua recitazione. L’espressione impassibile, lo sguardo quasi impietrito, la comicità lunare che andava contro corrente rispetto ai contemporanei Chaplin e Langdon, sono gli ingredienti più evidenti di un’arte che ha sempre trovato il giusto successo di pubblico (i suoi film incassavano spesso quanto i film di Chaplin) senza mai rinunciare alla sperimentazione portata avanti sul piano della recitazione e, successivamente, della regia (e non è un caso se i surrealisti lo amarono tanto). La sua prima apparizione sullo schermo è per il film "The butcher boy" (1917) di Arbuckle, cortometraggio che ritrova lo schema semplice dello slapstick, cui Keaton si ispirerà per le opere successive.

    L’esordio dietro la macchina da presa, invece, avviene con "The high sign" (1920), cortometraggio di due bobine (quasi tutti i film in questa prima fase sono diretti con la collaborazione di Eddie Cline) la cui uscita viene posticipata da Keaton all’anno successivo perché insoddisfatto del risultato. Più noto il successivo "One week" (1920) che segna anche il primo passo verso la conquista di una narrazione più fluida e libera dalle convenzioni del genere, come dimostra il lieto fine ambiguo che lascia non pochi interrogativi sulla felice risoluzione della vicenda. A partire proprio da questo film si insinua una sorta di tensione catastrofica che dimostra la lungimiranza del regista nel descrivere la realtà. Il suo sguardo geometrico e razionale su un mondo, invece, contraddittorio, da solo basta a far emergere l’aspetto drammatico e paradossale nascosto dietro l’apparenza.

    Dodici i lungometraggi da lui girati tra il ‘23 e il ‘29 a partire da "The three ages" (1923; "Senti, amore mio", oppure "L’amore attraverso i secoli") pensato per essere una parodia di "Intolerance" di Griffith con l’analoga soluzione degli episodi ambientati nelle differenti epoche storie, a "Our hospitality" (1923; "Accidenti… che ospitalità" oppure "La legge dell’ospitalità") diretto in collaborazione con Jack Blystone, dove la realtà viene descritta con accuratezza e attenzione, ma trasfigurata come attraverso uno specchio deformante che ne mette in rilievo la rilettura critica e disillusa. Non più comicità frammentaria e caricaturale ma una storia compiuta e coerente con personaggi descritti a tutto tondo e non ridotti ad una generica stilizzazione. Si pensi ai due protagonisti di "The navigator" (1924; "Il navigatore", diretto in collaborazione con Donald Crisp) soli e alla deriva su una nave abbandonata dall’equipaggio, oppure a "Sherlock jr." (1924; "La palla n. 13" oppure "Calma, signori miei!"), in cui si affronta il tema del difficile inserimento dell’uomo nella moderna società, senza tralasciare di riflettere sul cinema e sui meccanismi della finzione, discorso che sarà ripreso e ampliato in "The cameraman" (1928; "Io…e la scimmia") di Edward Sedgwick, con particolare riferimento alla possibilità del cinema di manipolare i fatti reali nel momento della loro riproduzione meccanica. Sempre la civiltà della macchina e i difficili rapporti con essa, sono i protagonisti di "The general" (1926; "Come vinsi la guerra" diretto in collaborazione con Clide Bruckman): durante la guerra di Secessione un macchinista sudista diventa eroe suo malgrado, per una serie di coincidenze e di casualità che travolgono l’impassibile calma del personaggio.  

    Contemporaneamente Keaton interpreta anche film diretti da altri registi nei quali riesce a portare avanti la poetica dell’uomo imperturbabile, spettatore del mondo, che osserva con distanza critica gli accadimenti quotidiani. Si possono citare, ad esempio, "Steamboat bill" (1928; "Io…e il ciclone") di Charles F.Reisner e "Spite marriage" (1929; "Io…e l’amore") di Edward Sedgwick. Con l’avvento del sonoro subentra la crisi dalla quale non si risolleverà più, fatta eccezione per alcune brevi interpretazioni. Lo ritroviamo, ad esempio, in "Sunset boulevard" (1950; "Viale del tramonto") di Billy Wilder, "Limelight" (1952; "Luci della ribalta" di Chaplin) e "The adventures of Huckleberry Finn" (1960; "Le avventure di Huckleberry Finn"). L’ultimo atto della sua grande poesia d’attore avviene con "Film" (1965) diretto da Alan Schneider e scritto per lui da Samuel Beckett.

     

     

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