OMBRE ELETTRICHE – Giappone oggi: l'horror non abita più qui?

Dopo l'iniziale stupore per l'ondata j-horror, con il suo senso d'inquietudine simmetrico, algido e quasi metafisico, l'industria cinematografica ha rivoltato la formula fino all'eccesso, inaridendo i risultati. Tolte le dovute eccezioni, rimane una tabula rasa. A meno che…

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Se si guarda alle ultime stagioni, la produzione di pellicole horror in Giappone non ha subito grandi rallentamenti: il discorso cambia se si pensa all'impatto che queste pellicole hanno avuto a livello mediatico ed emotivo. A differenza degli anni passati, nel pieno della new wave horror, all'epoca degli ormai arcinoti Ring, Audition, Ju-On, Kairo e compagnia, i nuovi film non sono più in grado di imporsi nell'immaginario – appaiono stanche riproposizioni, riletture di formule abusate. La cifra dominante sembra essere diventata la serializzazione, che moltiplica gli elementi senza prestare attenzione alla struttura. A partire dal successo dell'antologico Tales of Terror, sono aumentati i film a budget ridotto che sfruttano idee striminzite di partenza e ci ricamano sopra con poca inventiva. La conferma viene anche dall'altra antologia di stampo televisivo, Dark Tales of Japan, che raccoglie cinque storie appena accennate e prova ad ammantarle del solito tocco ambivalente, tra sguardo sociologico e orrore puro. Si tratta di prodotti pensati per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. In patria colmano una lacuna commerciale (la sempre pressante richiesta di horror freschi) mentre all'estero sono vendibili sull'onda dei nomi di richiamo (qui ad esempio Shimizu Takashi, regista di Ju-On, o Tsuruta Norio, regista di Ring 0). Il discorso è valido anche per le diverse serie ispirate ai fumetti: non che siano prive di fascino ma rimangono un piacere minore dedicato esclusivamente agli appassionati. L'esalogia Theater of Horror (The Boy from Hell, Dead Girl Walking, Lizard Baby, The Ravaged House, Death Train, Occult Detective Club), ispirata alle storie di Hino Hideshi, è un diversivo che si dimentica nel poco tempo necessario alla visione. Girati in video, i film sono più morbosi che concludenti. La stessa formula è stata utilizzata nella successiva esalogia di casa Shochiku, Kazuo Umezu's Horror Theater (House of Bugs, Diet, Snake Girl, The Wish, Present, Death Make), ovviamente ispirata alle opere di Kazuo Umezu. Anche in questo caso non si discute l'insana inventiva che permea ogni esperimento; manca però la volontà di affondare fino in fondo il colpo, la capacità di stupire avvolgendo lentamente lo spettatore nelle spire della storia. Un problema comune ai seguiti della saga di Tomie, dal manga del veterano Ito Junji. Tomie Beginning e Tomie Revenge vedono il ritorno alla regia di Oikawa Ataru, già regista del primo episodio nel 1999. I due film esplorano nuovamente l'universo circolare della fenice Tomie ma non aggiungono nulla al già visto.

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A deludere sono comunque anche progetti completi e conchiusi, che anelano a quell'alone di mistero che ha fatto la fortuna di autori come Nakata Hideo e Kurosawa Kiyoshi ma che sembra inevitabilmente estraneo alle nuove leve. One Missed Call 2, seguito dell'acuta incursione mainstream di Miike Takashi, è una sterile ripetizione dei meccanismi della suspense dell'originale. The Last Soup, di Fukutani Osamu, è un deludentissimo e farraginoso excursus sul cannibalismo, anacronistico e poco coraggioso. Anche i più recenti Dead Waves e Pray perdono di lucidità nonostante abbiano sollevato tiepidi interessi. Il primo, diretto da Hayama Yoichiro, è una via di mezzo tra Kairo e l'inglese White Noise: il conduttore di un programma tv dedicato agli spiriti, dopo un tentato esorcismo a una ragazza, si rende conto che le onde trasmesse dai televisori potrebbero trasportare la collera dei morti. Tolte alcune sequenze, Hayama (uno degli sceneggiatori delle Tales of Terror) non ha però le doti visionarie di Kurosawa e il suo film sprofonda nella noia. Pray, di Sato Yuichi, racconta di una coppia che rapisce una bambina per avere i soldi del riscatto. Rifugiatisi in una scuola abbandonata, i due scoprono però che la bambina è morta l'anno precedente. Sato si sforza in ogni modo di presentare qualche spunto originale (sulla carta l'incipit funziona) ma la messa in scena è talmente vacua da disperdere l'interesse dopo i primi dieci minuti. A qualcosa di più punta Gimmy Heaven (altrimenti noto come Synesthesia), di Matsuura Toru, che si inserisce nella tradizione delle divagazioni para-scientifiche stile Hypnosis o Parasite Eve. Le indagini su una inspiegabile catena di omicidi si interseca con la storia di un ragazzo che gestisce siti per voyeur ed è affetto da sinestesia (per cui i cinque sensi possono risultare invertiti). Premesse affascinanti, non confermate dallo svolgimento annacquato: ma almeno si tratta di un tentativo di addentrarsi nel torbido. Tentativo di cui si fanno carico anche le prime pellicole del J-Horror Theater, incredibilmente distribuite in Italia (Infection, Premonition, il prossimo Reincarnation): gli esiti sono altalenanti, meglio comunque l'ospedale impazzito di Ochiai Masayuki rispetto alle premonizioni nefaste di Tsuruta. Dubbi sollevano infine i ritorni di due figure cardine per la genesi della new wave, con degli adattamenti da romanzi di successo. The Man Behind the Scissors è diretto da quell'Ikeda Toshiharu che si impose all'attenzione internazionale con Evil Dead Trap (1988): qui affronta un thriller procedurale macabro, in cui una coppia di serial killer si ritrova interrogata in veste di testimoni per un omicidio che loro stessi avrebbero voluto commettere. Ikeda abbandona gli eccessi di violenza e sesso del passato e si adagia a una narrazione tradizionale. Gli unici elementi di interesse sono l'atipica coppia di protagonisti e lo stile narrativo che mantiene desta l'attenzione andando costantemente oltre gli elementi a disposizione dello spettatore: ciò nonostante il ritmo latiti e la messa in scena sia poco curata. Ancora più involuto, ma con tutt'altra classe, è Ubume, di Jissoji Akio, veterano delle trasposizioni da Edogawa Rampo (A Watcher in the Attic, del 1994, Murder on D-Street, del 1997). Qui si impegna nell'impossibile riduzione di un romanzo fiume di Kyogoku Natsuhiko che intreccia orrore, paranormale, dramma, psicologia, occultismo, ricostruzione storica in una storia densa di personaggi e avvenimenti che Jissoji padroneggia fin che può, mantenendo vivo il suo stile sincopato ma perdendo talvolta di vista il disegno globale.


Un quadro che tra alti e bassi rimane ben misero, considerato il numero di pellicole prodotte. Purtroppo le eccezioni a questa desolazione sono poche: la sorpresa Neighbour no. 13, ad esempio, di cui avevamo già parlato in un precedente articolo, o il sempre immenso Tsukamoto, che nei neanche 50 minuti che compongono Haze filma uno degli assalti più consapevoli ai concetti di isolamento e claustrofobia. È la fine quindi del new horror giapponese, inteso come movimento organico in grado di imprimere la propria etica (nonché estetica) al resto del mondo – si veda la ridda di remake in suolo hollywoodiano, non ancora conclusa? Non necessariamente. L'horror e il cinema sovrannaturale in Giappone sembrano star vivendo una ambigua metamorfosi, ancora in svolgimento. Spiriti vendicativi e fantasmi catodici non accennano a scomparire; stanno piuttosto ridisegnando il territorio di influenza sul suolo televisivo. Nel frattempo, tra produzioni minori o anacronistiche, si intravedono germogli di cambiamento, soprattutto in direzioni più estreme, dolorose, viscerali – quindi forse inesportabili o comunque difficilmente vendibili al grande pubblico. Ancora presto per dire se si tratti di bagliori sparuti o della nascita di una tendenza destinata a consolidarsi eppure l'antologico Rampo Noir (Jissoji Akio, Kaneko Atsushi, Sato Hisayasu, Takeuchi Suguru) e il visionario Strange Circus (di Sono Shion, già autore di Suicide Club) a loro modo così diversi, indicano con chiarezza che un'altra strada è possibile. Rampo Noir raccoglie quattro schegge ispirate ancora una volta a Edogawa Rampo: si tratta di cinema sovversivo, all'arma bianca, incompromissorio. Parimenti Strange Circus si addentra nella mente di una scrittrice di romanzi erotici dal passato irrisolto ed è un esempio di cinema furente, che non ha paura di eccedere. Entrambi i film tornano alle radici degli ero-guro, innestandoli con forti dosi orrorifiche. Il mondo che raccontano Rampo Noir e Strange Circus è infatti deviante, evanescente, violento: un mondo in cui sessualità e sogni, sangue e ideali si fondono e confondono, aprendo squarci sul lato oscuro della psiche umana tramite l'eccesso e il sovraccarico. Se la spinta del new horror pare essersi docilmente esaurita, si stanno forse aprendo nuovi spazi espressivi, ancora più inquietanti?

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