Ombre rosse, di John Ford

Amato da generazioni di cinefili, il western per eccellenza che ha influenzato Welles per la profondità di campo e che per Bazin è sinonimo di perfezione. Stasera, ore 21.00, Iris

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“Ombre rosse illustra probabilmente il limite estremo di un equilibrio ancora classico tra le regole primitive, l’intelligenza della sceneggiatura e l’estetica della forma. Al di là vi è il formalismo barocco o l’intellettualismo dei simboli [… ]. John Ford era arrivato all’equilibrio perfetto tra i miti sociali, l’evocazione storica, la verità psicologica e la tematica tradizionale della messa in scena del western. Nessuno di questi elementi fondamentali prendeva il sopravvento sull’altro. Ombre rosse dà l’idea di una ruota così perfetta da poter stare in equilibrio sul proprio asse in qualsiasi posizione la si metta”.  (Andrè Bazin)

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  1. Una diligenza. Nove personaggi costretti a confrontarsi con la vita e la morte. La minaccia degli indiani lì fuori, da qualche parte, in un altrove che è lo spazio della paura e del desiderio di un viaggio. Ombre rosse entra di diritto nella storia del Cinema perché ribalta la lezione di Griffith sulla rinascita della nazione americana. Niente intolleranze, razzismi, differenze di classe: di fronte ad un pericolo esterno (Geronimo e i suoi pellerossa) l’America si compatta nella solidarietà e nell’accoglienza. Il percorso da Tonto (Arizona) a Lordsburg (New Mexico) non è semplicemente il passaggio ad un diverso livello di civiltà, ma la consapevolezza che la propria identità è un equilibrio precario tra progresso e tradizione, natura selvaggia e norme sociopolitiche.

John Ford rimase affascinato dal racconto Stage to Lordsburg di Ernest Haycox che era ispirato da Palla di sego (Boule de suif) di Guy de Maupassant ed individuò nella figura della prostituta Dallas (Claire Trevor) il perno attorno al quale fare muovere tutti gli altri personaggi. Tra questi, presentato con uno zoom leggendario (“A Shot that Made a Star” dirà Enrico Ghezzi), John Wayne nella parte del pistolero Ringo Kid che cerca vendetta contro i fratelli Plummer. La Monument Valley è il teatro ideale nel quale ospitare le tragedie di nove personaggi in cerca di una identità: oltre Ringo e Dallas troviamo un medico alcolista Dr Boone (Thomas Mitchell, Oscar migliore attore non protagonista), un giocatore ambiguo Hatfield (John Carradine), Lucy Mallory (Louise Platt) moglie incinta di un ufficiale, un venditore di alcolici Peacock (Donald Meek), il banchiere ladro Gatewood (Berton Churchill) e i due alla guida della diligenza, lo sceriffo Wilcox (George Bancroft) e il fido postiglione Buck  (Andy Devine). La convivenza di questi personaggi prima all’interno della diligenza e poi nella locanda, rivela come tutte le scelte di messa in scena siano funzionali ad evidenziare i diversi rapporti di forza. La disposizione dei posti a sedere nella diligenza, l’incrocio di sguardi desideranti Dallas-Ringo e Lucy-Hatfield, la votazione se proseguire il viaggio, il momento a tavola con i due emarginati Ringo e Dallas che fanno muro contro il razzismo degli altri commensali, il parto di Lucy che si svolge a lume di candela.

Vita contro morte, nascita contro assassinio, orgoglio contro pregiudizio. Ringo riconosce nella giovane prostituta il suo destino di fuorilegge per necessità e se ne innamora all’istante. Diverso è lo strano rapporto che si viene a creare tra Lucy e Hatfield: non sai mai dove finisca la passione e inizi la perversione (il dettaglio rivelatore è che quando Lucy sviene, Hatfield si rifiuta di prenderla in braccio e chiama soccorso). John Ford rende più claustrofobici gli ambienti inquadrando soffitti bassi e giocando con la profondità di campo (Orson Welles si ispirerà ad Ombre rosse per il suo Citizen Kane). Le stesse musiche (premiate con l’Oscar) mutano di intensità e di tonalità con il cambio repentino dell’azione, come nella magnifica scena in cui lo sguardo ipnotizzato sulla Monument Valley ha un sorprendente scarto laterale che rivela la minacciosa presenza dei Comanche. I

Il momento più avvincente è quello degli indiani che assediano la diligenza: per girarlo John Ford usò una macchina che andava a 60 km/h e sfruttò le abilità fisiche del capo stuntman Yakima Canutt che passava di cavallo in cavallo per poi finire a terra con il rischio di essere calpestato (la scena sarà citata da Spielberg ne I predatori dell’arca perduta). Al momento di azione corrisponde sempre un momento di riflessione. Forse ha ragione il venditore di liquori a dire “cerchiamo un po’ di avere carità l’uno verso l’altro” che contrasta con il delirio reazionario pronunciato dal banchiere  “l’ america agli americani…Il presidente deve essere un uomo d’affari…”.

Ford è sicuramente dalla parte del New Deal: si schiera platealmente con Dallas contro le pie donne della Lega della Moralità e con Ringo che cerca di pareggiare i conti con i fratelli Plummer. Come ne L’uomo che uccise Liberty Valance la mano a poker di due assi e due otto è presagio di morte. Ford conclude la sua cavalcata con la sorprendente ellisse del duello finale: si sentono solo spari nell’oscurità e si rimane in trepida attesa su chi sia rimasto vivo.

Amato da generazioni di cinefili, Ombre rosse rappresenta la pietra miliare della rifondazione del genere western e un esempio classico di opera in cui convivono introspezione psicologica e azione allo stato puro. Tra gli ululati dei lupi e le forme cangianti delle nuvole, tra le frecce degli indiani e le pallottole dei cowboys, si posiziona un sogno d’amore che salva dalla presunta civiltà, un’oasi di celluloide fuori dal deserto del reale.

 

Titolo originale: Stagecoach

Regia: John Ford

Interpreti: John Wayne, Claire Trevor, John Carradine, Thomas Mitchell, Andy Devine, George Bancroft, Berton Churchill, Louise Platt, Donald Meek

Durata: 99′

Origine: Usa 1939

Genere: western

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