On the Job: The Missing Eight, di Erik Matti

In una storia intricata, Matti affonda il suo attacco contro le derive del potere filippino. Ma nell’azione vera e propria, la direzione si fa lucida, cristallina. In concorso a #Venezia78

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Nelle quasi tre ore e mezza di On the Job: The Missing Eight (On the Job 2), Erik Matti accumula materiale narrativo, situazioni e personaggi, in maniera bulimica. Al punto che, a tratti, è difficile dipanare l’intrigo, districarsi nella ragnatela di volti, legami, connivenze e colpi di scena.

Mettendo un po’ d’ordine, due sono le linee principali. Le vicende del giornale LPN e del reporter Sisoy Salas, che negli anni è diventato una specie di showman, una voce nota della radio filippina e uno strenuo sostenitore del sindaco di La Paz, Eusebio, su cui però pesano pesanti sospetti riguardo la condotta poco ortodossa della vita politica della provincia. Poi c’è la vicenda, “più modesta”, di Ramon, un detenuto condannato all’ergastolo per un crimine non commesso, che viene ripetutamente assoldato per compiere lavori da sicario fuori dal carcere. A unire le strade dei due personaggi, la scomparsa misteriosa di sette giornalisti di LPN e del figlioletto del proprietario del giornale. Ma questo è per farla semplice, perché il film davvero è un complesso deposito di tracce che si aprono a mille percorsi possibili. Magari, ci sarebbe voluto un respiro più ampio, lento e controllato, un tempo di decantazione. E, difatti, il film anticipa una miniserie che uscirà per HBO Asia ed è già annunciato un nuovo episodio conclusivo della “saga” iniziata con On the Job nel 2013.

Ma questo accumulo, qui, sembra comunque avere un senso, specchio deforme e consequenziale del caos di una società dove dominano la corruzione, la violenza, la collusione tra politica, giornalismo, criminalità. E che diventa evidente, ben “visibile”, nell’esplosione di breaking news, a volte vere, per lo più fasulle, manipolate ad arte, che si materializzano tra le immagini e le fanno esplodere in una girandola di fuochi d’artificio mai del tutto leggibile. Matti sfoga così la sua rabbia, in un veemente attacco, quasi alla cieca, ai gangli del potere. In cui resta nitida, in particolare, la trasformazione del personaggio di Sisoy, che da specie di guitto-marionetta, cantante da serate di festa, riacquista a poco a poco la dignità morale e riscopre la vocazione delle origini, quella del giornalista d’assalto.

Ma la rabbia non eclissa neanche la componente ludica, il piacere dello spettacolo, di giocare con il genere, di abbandonarsi al turbinio un po’ naif di sovrimpressioni e di split-screen, che recuperano procedimenti compositivi d’altri tempi. Finché, quando si passa all’azione vera e propria, la direzione di Matti si fa lucida, cristallina quasi. Coreografie vertiginose che seguono assi cartesiani, un senso del ritmo e della posizione che potrebbero far pensare a certi film hongkonghesi degli anni ’90, le canzoni che accompagnano e sottolineano i momenti topici. Come se il Johnny To più “costruttivista” fosse posseduto da un demone scorsesiano. Sono i momenti in cui il film letteralmente impenna, in bilico tra le acrobazie degli spari e dei corpi e la razionalità del montaggio, tra la confusione e l’organizzazione della messinscena. Sino all’apice della scena “melvilliana” della ricostruzione degli incontri e degli spostamenti tra i piani di un albergo, attraverso i video delle telecamere di sorveglianza. Certo, nel caos, rischia di perdersi l’intensità, teorica, esistenziale. Ma il colpo arriva comunque, in pieno.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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