Onde fica esta rua? (Where Is This Street?), di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra de Mata

Una dichiarazione d’amore tenera e quasi disperata per Os verdes anos, il film di Paulo Rocha del 1963. Un film di assenze e di memoria, ma che si apre alla libertà della fantasia. A Locarno 75

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La prima inquadratura di Os verdes anos, il film d’esordio di Paulo Rocha del 1963, era una panoramica laterale sulla campagna alle porte di Lisbona. Era un movimento dolce, molto lontano dalla tragedia che si sarebbe consumata di lì a poco. Per un amore sbocciato troppo in fretta e un’unione non compiuta. Ma, ancor più, per un’impossibilità di appartenenza. Júlio, il diciannovenne che dalla campagna giunge in città per “trovare la propria strada”, accarezza la speranza e sfiora una promessa di felicità. Ma si disintegra, letteralmente. Fino alle conseguenze più estreme. La città in trasformazione non è necessariamente un luogo accogliente. Anche perché la trasformazione non è accogliente. Pretende i suoi cadaveri.

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Ma, dunque, onde fica esta rua? Dove si trova questa strada? Esiste una strada? Viene da giocare così con il titolo del film di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra de Mata. Che è una dichiarazione d’amore profonda, tenera e quasi disperata per Os verdes anos. Per ragioni cinematografiche, ovvio. Ma anche per ragioni intime, personali. E non potrebbe mai essere altrimenti. Del resto dal palazzo in cui vivono i due registi, costruito dal nonno di Rodrigues agli inizi degli anni ’60 nel quartiere di Alvalade, è possibile riconoscere alcuni degli ambienti del film di Rocha. Dalla loro finestra si apre un luogo abitato da spettri. Per questo partono all’inseguimento delle immagini di Rocha, negli stessi luoghi, con gli stessi movimenti. Per provare a riconoscerne e trattenerne le tracce. Ed è chiaramente un gioco a perdere. Chiedersi “dove si trova questa strada” è anche una dichiarazione di spaesamento. E aggiungere, nel sottotitolo, “senza un prima né un dopo” è la consapevolezza di un’irripetibilità.

Già. La domanda che viene da farsi è quanto un’operazione del genere possa reggere  senza il riferimento al film di partenza, senza quell’autorità. E la risposta, forse, è proprio nella tensione dell’affanno. È questione di assenza e di ricordi, di vuoti di memoria. La Lisbona che João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra de Mata ritrovano, a 60 anni di distanza, è una città profondamente cambiata. Il tempo ha mangiato il paesaggio, i palazzi hanno invaso la campagna e il selvatico è stato addomesticato, ma non per questo è stato reso più umano e più abitabile. Anzi. Sì, potrebbe sembrare una città più curata, più tenacemente rivolta alle esigenze e alle mode del moderno. Ma è anche una città più asettica. I segni della pandemia funzionano come detonatore, ma il vuoto è più profondo, va al di là del dato contingente. E ovunque si riconoscono i segni di una desolata disfatta, a partire da quei resti umani, scoperti tra le piante del parco assolato. Il mondo è diventato un deserto.

È come quando perdi qualcuno. E, allora, provi a rifare le cose che hai vissuto con quella persona. A ripercorrere gli stessi posti, a mimare gli stessi movimenti. Perché ti ostini a credere che lei sia ancora lì, presente, sia rimasta tra la polvere delle strade, dei muri delle case, tra le cose. Perché sai che i luoghi hanno un senso innanzitutto per le persone che li hanno attraversati, che ne hanno disegnato le traiettorie e ridefinito i volumi, ben oltre il disegno e il progetto. Si materializza il fantasma di Isabel Ruth, la protagonista del film di Rocha, che canta dolcemente Os verdes anos e incrocia il nostro sguardo. Ma è un istante. Per il resto, muoversi in questa Lisbona deserta, disabitata, desolata, cercando disperatamente di trattenere un film lontano decenni, vuol dire provare a sfuggire dal dato ottuso del presente facendo appello alle immagini di una città che non c’è più e di un cinema che non c’è più. Ma tutto è mutato e anche la memoria si decompone, trascolora, sfuma, è impregnata di sentimenti che si mescolano ad altro. Ti accorgi che non puoi trattenere. Perdi le forme delle cose, delle piante, perdi la trama dei film, i titoli, perdi i contorni delle immagini. E ti ritrovi lontano da quel giardino dell’Eden.

Finché ti rendi conto che l’unico tempo possibile è l’oggi. Che la memoria, in fondo, è una dittatura. Ed è imperfetta, come ogni dittatura. Per fortuna. La fragilità della memoria dà forza agli uomini. E, allora, incominci a guardare e ritrovare la speranza di segnali di vita. Due ragazzi che si baciano, la possibilità di un incontro. Ritorni ad abitare il presente, con tutti i suoi vuoti e le sue storture. A riconnettere gli spazi. Il dove sono stato abbraccia il dove non siamo stati (che anche l’anima di Corso Salani si aggiri per queste strade?). E cominci a immaginare un tempo diverso, proiettato al futuro. Del resto i movimenti di macchina di Onde fica esta rua?, funzionano come un’evocazione rituale. Non hanno un senso rispetto alla concretezza attuale degli spazi. Sono una ripetizione liturgica, assomigliano a una danza, a un esorcismo. E diventano, a poco a poco, una liberazione dalla schiavitù della materia, di ciò che è. Per questo possono aprirsi a un finale in cui sovvertire il dato di fatto della storia e della tragedia. Isabel Ruth è ancora lì. Pronta, finalmente, alla gioia della salvezza.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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