Operation Finale, di Chris Weitz

Chris Weitz più che la portata morale del processo Eichmann sceglie di concentrarsi sul lato thriller, raccontando le difficoltà dell’operazione e i rischi mortali dei protagonisti. Su Netflix

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Nata per un colpo di fortuna, un ragazzo che si è atteggiato un po’ troppo davanti l’anziano padre della sua fidanzatina, la cattura di Adolf Eichmann è stato il momento più importante della breve storia dello stato d’Israele, il punto in cui un intero popolo è riuscito a guardare in faccia, definitivamente, il proprio atroce passato. L’arresto e il processo del nazista Eichmann, il “contabile” mente operativa della Soluzione finale, avvenne nel 1960 e mise un piccolo commando di agenti segreti israeliani al centro di un assurda storia vera. Rintracciato grazie alla segnalazione di un vecchio ebreo emigrato in Argentina, il gerarca nazista si nascondeva insieme alla sua famiglia nella periferia di Buenos Aires, con il nome fittizio di Ricardo Clement. La sua cattura, il trasferimento a Gerusalemme e il processo mediatico-catartico segnarono il punto di non ritorno nella formazione identitaria del giovane stato d’Israele, mettendo il popolo ebraico e tutto il mondo, finalmente davanti alla resa dei conti con l’Olocausto. Diventato evento globale, il processo Eichmann permise alle vittime di esporre il proprio dolore e la propria rabbia, ribadire al mondo l’orrore a cui erano sopravvissuti e guardare negli occhi il Carnefice. Eichmann divenne il simbolo vivente di una macchina di Morte, andando oltre il suo essere, in fin dei conti, solo uno dei tantissimi nazisti tronfi nel loro delirio di onnipotenza e scappati come conigli in sudamerica, dove si divertivano con i loro patetici gruppi di nostalgici a ricordare malefatte e crimini.

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Chris Weitz più che la portata morale del processo sceglie di concentrarsi sul lato thriller della vicenda, raccontando le difficoltà dell’operazione e i rischi mortali corsi dagli agenti del Mossad. Guardando dietro la leggenda dell’implacabile servizio segreto israeliano, l’infallibile macchina da guerra, il regista, forte della lezione spielberghiana di Munich, mette in mostra tutte le sofferenze e i dubbi di questi uomini. Tra chi non riesce a dimenticare il proprio passato, quasi arrivando a sfoggiare i propri morti come un vanto, chi sente talmente la pressione del peso politico e storico da impazzire e chi è più concentrato a chiudere la missione per guardare al domani, gli agenti di Weitz sono uomini e donne arrabbiati ma lucidi, spaventati ma decisi. La schizofrenia di chi è in bilico tra passato e futuro è rappresentata dall’agente Oscar Isaac, che unisce in se tantissimi dettagli e suggestioni, emozioni e paure.

Comico istrionico ma spezzato e innamorato, Isaac rischia di cedere alla tentazione del Boia, di poter farsi giustizia contro il Male Assoluto, finalmente inerme e vendicare tutto. La soddisfazione di un attimo, l’istante di un orgasmo di Vendetta, può valere la catarsi di un intero Popolo, la rappacificazione di una Nazione? La domanda non è scontata. E’ quindi il leggero Isaac (geniale l’idea di Weitz di enfatizzare il lato comico dei personaggi, anche chiamando in causa il comedian Nick Stroll) più che uno spietato esecutore diventa un agente in balia delle proprie emozioni e dei propri bisogni, schiacciato tra il desiderio di eseguire al meglio un compito in cui crede ciecamente e quello di rendere giustizia al ricordo della sua amata sorella Fruma, trucidata dal mostro nazista. Il (suo) finale rappresenterà solo il breve sollievo di avere fatto un passo verso il futuro. Piccolo ma infinitamente necessario.

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