Ore 15:17 – Attacco al treno, di Clint Eastwood

L’ossessione di Eastwood per la soglia tra celebrazione pubblica e intimità privata al punto di non ritorno, nell’intuizione che l’educazione all’autorappresentazione digitale annulli ogni Mitologia

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C’è una sola arma che funziona, sulla scena di tutto Ore 15:17 – Attacco al treno, e non è il mitra che s’inceppa di Ayoub El Khazzani, o la sua pistola che va a vuoto: è il selfie stick dei tre protagonisti, l’unico mirino infallibile di questi sniper in libera uscita in giro per l’Europa, il vero “strumento di pace” passa da instagram, e dall’ossessione per la diretta continua di questi ragazzoni di Sacramento, già ad agosto 2015.
Se è vero che tutto il film, come i due precedenti, è un susseguirsi di presagi e piccoli interventi del destino che spingono verso l’appuntamento cruciale, qui la deviazione decisiva la dà la ricerca del vagone con la wi-fi più potente – il fervore divino che investe soprattutto Spencer si smaterializza nei pixel di un’autorappresentazione a bassa frequenza, quella che mescola nel finale il repertorio della cerimonia da Hollande con le riprese girate ex-novo oramai senza alcuna soluzione di continuità o di grana dell’immagine (chi è che sta recitando in quel momento? chi il performer e chi/cosa il reale?). L’ossessione eastwoodiana per la soglia tra celebrazione pubblica e intimità privata raggiunge qui definitivamente il punto di non ritorno, nell’intuizione che l’educazione alla narrazione perenne di noi stessi, che i media digitali vanno operando, di fatto annulla ogni Mitologia che non possa contenere anche il filmino delle nottate tra discoteche di Amsterdam e bevute memorabili (il film, com’è noto, racconta il mancato attacco al treno Thalys per Parigi del 21 agosto 2015, dal punto di vista dei tre americani che hanno neutralizzato l’assaltatore marocchino, utilizzando come protagonisti i tre reali “eroi” della vicenda, diventati personaggi celebri sulla stampa internazionale).

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E infatti l’unica figura prettamente cinematografica è ancora una volta il cattivone statuario di cui mai nulla sapremo né ci interessa sapere, da perfetto campionario action con i muscoli lucidi e lo sguardo torvo, a partire dalle modalità con cui è ripresa da Tom Stern, davvero gli unici istanti in cui la macchina-cinema si permette un intervento più deciso, tangibile. Una sorta di intrusione del canone disaster-terroristico all’interno del racconto delle vacanze di Anthony, Spencer e Alex, rimesse in scena quasi come fossimo in una di quelle ricostruzioni seriali da canale satellitare, che in Italia passano su Real Time o su Nove Tv.
Superato l’innegabile clash iniziale con la modalità (in quanti si chiederanno, incredibilmente solo adesso, che fine ha fatto il cinema?), risulta evidente come Eastwood sappia bene quanto sia proprio questa tipologia spuria e televisiva la prima, e preponderante, esperienza di queste generazioni con la forma “documentaristica”, con una tipologia cioè di racconto strutturato del reale attraverso i dispositivi audiovisivi. Una

1517-paris suggestione che Clint prende di peso, va detto, più che dal Redacted depalmiano dal seminale Billy Lynn di Ang Lee, un’operazione anticipatrice di questa per molti versi (compresa la volontà di mostrare finalmente soldati letali quanto sentimentali, una sorta di superamento del machismo obbligatorio nelle rappresentazioni di leva).

Dov’è il film? Dove comincia o finisce il set? Tra le goliardate da bromance e il rimpallo con la rimessa in gioco del proprio passato con tutti i difetti e le cazzate, uno potrebbe quasi scoprire affinità tra Eastwood e il cinema dei Franco/Rogen tra This is the end e Disaster Artist. Ma il riferimento a Full Metal Jacket, il cui poster è appeso in una delle camerette dei protagonisti da bambini, va oltre l’evidente assonanza tra D’Onofrio/Palla di Lardo e il disastroso addestramento del soldato Stone – R. Lee Ermey, il maggiore Hartman di Kubrick, è infatti forse l’esempio più celebre degli ultimi 30 anni di militare passato a interpretare sostanzialmente se stesso sul grande schermo.
Eastwood pare in questi modi voler stratificare un prodotto nato con l’intento primario di sostenere e sponsorizzare la via americana all’eroismo pensata da questi Forrest Gump con lo smartphone. La retorica guerrafondaia che l’opera porta con sé diventa impossibile da aggirare, ma a guardare bene, l’unico fondamentalista che Clint mostra più volte invocare il proprio dio per farsi “strumento di pace” nel mondo, alla fine non è l’attentatore marocchino, il quale per tutto il film non pronuncia infatti mai neanche una preghiera suicida.

 

Titolo originale: The 15:17 to Paris
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Anthony Sadler, Alek Skarlatos, Spencer Stone, Jenna Fischer, Judy Greer, Ray Corasani, Shaaheen Karabi, William Jennings, Thomas Lennon, Jaleel White, Tony Hale, Sinqua Walls, P.J. Byrne, Helene Cardona
Distribuzione: Warner
Durata: 94′
Origine: USA, 2018

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