#Oscars2016 – C’è della magia in tutto questo…

Il commento di Martin Scorsese per uno dei suoi Oscar sfumati riassume tutte le cerimonie. Le tensioni e le redenzioni. I torti subiti per essere riparati. La trama con cui Hollywood si rinnova…

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Tutte le edizioni della notte degli Oscar sono a loro modo storiche, ma questa del 2016 aveva dei presupposti particolari che l’avevano fatta entrare negli annali ancora prima di cominciare. La cerimonia del Dolby Theatre era effettivamente iniziata con quel post del 18 gennaio in cui Spike Lee aveva denunciato l’assenza di attori afroamericani tra i candidati. La sua campagna era partita su Istagram con il nome di OscarSoWhite e aveva raccolto l’adesione di molti nomi illustri. Il cineasta aveva raggiunto l’obbietivo di partenza di alzare una polemica ma la risposta hollywoodiana non si è fatta attendere ed è stata elegante ed efficace come l’abito di Charlize Theron.

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La questione è diventata il tema su cui Chris Rock ha condotto tutta la serata e la sua ironia mai troppo corrosiva era riassunta nel suo tuxedo simbolicamente candido. Gli intermezzi hanno affrontato il tema con un’incisività che non ha mai sconfinato dal politically uncorrect ma alla fine ha fatto prevalere la tesi dell’establishment. L’insistenza con cui le clip dei film in concorso sono state ritoccate con degli attori neri ha messo in luce la forzatura della tesi di Spike Lee. La sua idea di avere delle quote razziali nella candidature potrebbe diventare incongruente e innaturale. La notte degli Oscar del 1968 si svolse a soli sei giorni di distanza dall’assassinio di Martin Luther King. La commozione generale e la tensione nella vita sociale della nazione non impedirono di svolgere la premiazione e a La calda notte dell’ispettore Tibbs con Sidney Poitier di vincere come miglior film dell’anno. Fu merito oppure compensazione? Fu empatia o un ruffiano senso di colpa? Hollywood non fa altro che rinnovare il mito americano a partire dalla sua crisi in una perfetta sintesi narrativa. È difficile dire se sia un’istituzione conservatrice o progressista perché probabilmente non è nessuna delle due: tende solo a rigenerarsi continuamente.

Le scelte dell’Academy sono state il solito capolavoro di sintesi tra un cinema che tiene in considerazione l’innovazione ma indirizza la ribalta sulla tradizione. Il titolo più premiato è stato Mad Max Fury Road che con sei Oscar ha fatto piazza pulita delle attestazioni tecniche. Mad Max è stato riconosciuto come il film fatto meglio dell’anno ma questa ammissione è rimasta lontana dai riflettori. I momenti che hanno guadagnato la cronaca si sono concentrati su proposte più rassicuranti. L’audace script di The Big Short di Adam McKay è stato chiamato in scena quando tutti erano ancora al guardaroba. In un certo senso, è stato come se la giuria avesse concesso qualcosa ai concorrenti per non disturbare il main event. La sensazione era che tutta la serata fosse focalizzata sulla grande redenzione di Leonardo Di Caprio.

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L’attore è arrivato a ritirare l’Oscar come penultimo della scaletta e il suo discorso ha seguito la falsariga blandamente politica di chi lo aveva preceduto. La cerimonia del 2016 verrà ricordata come la fine della sua maledizione e in certo senso ha vissuto tutti i suoi mesi di preparazione in funzione di questa catarsi. Il divo ha ringraziato Martin Scorsese per avergli insegnato tutto sull’arte del cinema e ha stabilito un fil rouge con un altro celebre sortilegio dell’Academy. Il cineasta ritirò il suo riconoscimento dopo essere stato annunciato dai suoi grandi “amici” George Lucas e Steven Spielberg. Il momento che aveva aspettato per tutta la sua carriera era arrivato dopo sette nomination a vuoto e aveva anche una sfumatura di sottomissione. Leonardo Di Caprio è andato ad incassare il suo momento di gloria ma anche in questo caso si è fatta avanti l’idea che sia stata la legge a vincere.

L’epopea dell’Oscar richiede un riscatto a certe condizioni ma anche l’idea di uno sconfitto. Non c’è un’edizione che non abbia una vittima sacrificale o un’ingiustizia di cui parlare per anni. Il torto subito fa parte del repertorio di vecchie storie che hanno costruito la leggenda di questa notte. Nel momento in cui uno dei più rinomati capri espiatori è venuto meno il destino ha scelto Sylvester Stallone. Il dolore per il suo Oscar mancato forse gli rende ancora più giustizia perché se ne parlerà di più di quanto sarebbe accaduto se lo avesse vinto. Sly non potrà mettere la statuetta vicino alla collezione di Razzie che conserva a casa e nessuno potrà consolarlo. Lo stupore con cui la platea ha accolto il nome di Mark Rylance è stato seguito da un applauso di fair play. Il vincitore senza cintura ha girato il vero finale di Rocky e se ne è andato mano nella mano con Jennifer Flavin. Non me ne frega niente a me del futuro…

In una nottata che ha seguito alla lettera molti dei miti del copione l’unica variabile impazzita è stata la commozione di Ennio Morricone. Gli impacci con il vestito lungo di Brie Larson sembravano un clichè alla All About Eve di Joseph Mankiewicz. I suoi modi senza pretese perpetuavano lo stereotipo della giovane e umile attrice che non si darà giammai delle arie da diva. Le parole in italiano del grande compositore sono state un momento sincero dette da un uomo che ormai è troppo vecchio per badare all’etichetta. Le ha dette nella sua lingua e con un foglietto e con un inchino d’altri tempi per un contesto che gli ha riservato solo delusioni negli anni migliori. L’atteggiamento nello spanglish di Alejandro G. Iñárritu è stato quello di chi parla sempre in una lingua non sua e che non rispetta. Il fatto di aver vinto due Oscar di seguito come John Ford non gli ha tolto il vizio di farci la morale in ogni situazione. La notte degli Oscar ha ribadito la fastidiosa consapevolezza che dovremmo sorbirci i suoi sermoni ancora a lungo ma anche quella che Hollywood gli sopravviverà.

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