#Oscars2016 – I cinque maestri dell’immagine

Mai come quest’anno la cinquina per la miglior fotografia degli Academy Award è scandita da stili e visioni del cinema personali, diverse tra loro ma uniche e ammalianti.

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Mai come quest’anno la cinquina per la miglior fotografia degli Academy Award è scandita da stili e visioni del cinema personali, diversi tra loro ma unici e ammalianti. Vediamo una per una le cinque nomination che formano forse la categoria più competitiva degli ultimi 20 anni. Cinque maestri dell’immagine che hanno creato mondi visivi formidabili. È soprattutto grazie a loro se in un modo o nell’altro, The Revenant, Mad Max, Carol, Sicario e The Hateful Eight sono già entrati di diritto nell’immaginario cinefilo e popolare di questa stagione hollywoodiana.

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Storico operatore dei fratelli Coen, Roger Deakins non ha mai vinto un Oscar a fronte di ben 13 nomination. Un ostracismo che in confronto fa apparire la voglia di riconoscimenti di Leonardo Di Caprio il capriccio di un bambino viziato. Il curriculum di Deakins è impressionante. Ha illuminato opere come Le ali della libertà, Kundun, Fargo, L’uomo che non c’era, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, Non è un paese per vecchi, Skyfall. Quest’anno concorre con uno dei film più belli e sottovalutati della stagione: il noir sul traffico di droga Sicario (nella foto in alto), diretto dal canadese Denis Villeneuve. Un altro capolavoro di luce e ombra, con una sequenza notturna ai raggi infrarossi che sprofonda lo spettatore nelle tenebre più profonde del visibile.

Emmanuel Lubezki - The Revenant di Alejandro G. Inarritu

Emmanuel Lubezki – The Revenant di Alejandro G. Inarritu

 

Su Emmanuel Lubezki scrivemmo lo scorso anno dedicandogli un profilo che analizzava l’importanza del suo stile nel cinema contemporaneo. È senza dubbio il vero genio dietro al cinema dei messicani Cuaròn e Inarritu e quest’anno potrebbe vincere per il terzo anno consecutivo, dopo i riconoscimenti per Gravity e Birdman. Nulla da dire sulla grande tecnica di The Revenant. Anche se forse la perizia degli impossibili piani sequenza lubezkiani corrono sempre di più il rischio di presunzione e manierismo. Lubezki ha già cambiato il cinema contemporaneo come fecero Vittorio Storaro e Gordon Willis negli anni Settanta. Il pericolo però è che il suo marchio di fabbrica diventi sempre più una confezione autoriale con cui opacizzare il contenuto emotivo ed etico del cinema.

Robert Richardson - The Hateful Eight di Quentin Tarantino

Robert Richardson – The Hateful Eight di Quentin Tarantino

Ecco un veterano che ha fatto la storia del cinema degli ultimi 30 anni senza che ce ne accorgessimo. Robert Richardson ha firmato le opere di Oliver Stone, Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Passando dalla docufiction di Platoon e JFK (primo Oscar nel 1991), ai barocchismi scorsesiani di Casinò, Al di là della vita, The Aviator (secondo Oscar nel 2004) e poi il 3D di Hugo Cabret (terzo Academy). Con Tarantino lavora dai tempi del “doppio” Kill Bill. The Hateful Eight è probabilmente il punto finale della loro collaborazione, immortalata dal glorioso 70mm che ripercorre il formato panoramico dei grandi classici di Sergio Leone e John Ford.

John Seale - Mad Max Fury Road di George Miller

John Seale – Mad Max Fury Road di George Miller

Tra fascino del vintage, ritorno all’action movie analogico ed esplosioni in digitale che ricostruiscono e reinventano gli spazi e i mondi apocalittici della celebre saga firmata da George Miller. Gran parte della folle grandezza di Mad Max Fury Road va addebitata alla immaginazione visiva di Miller e di John Seale – che in passato vinse l’Oscar per Il paziente inglese e che ebbe la sua prima prima nomination trent’anni fa con il film hollywoodiano di un altro grande cineasta australiano, Witness di Peter Weir. Visivamente Fury Road è un prodigio che meriterebbe di essere consacrato con un riconoscimento. Ma a prescindere da come andrà siamo già nei dintorni del mito.

Edward Lachman - Carol, di Todd Haynes

Edward Lachman – Carol, di Todd Haynes

Quello di Edward Lachman per Carol (il nostro perché sì/perché no) è forse il lavoro più raffinato della cinquina. Gli anni Cinquanta come in una serigrafia di Hopper o in una istantanea di Saul Leiter. Eleganti, oscuri, iperrealisti e allo stesso tempo opachi, incorniciati nelle convenzioni di un mondo riprodotto con dettagli minimalisti forse mai così reali e ricercati. Collaboratore abituale di Todd Haynes – con cui aveva già raccontato il decennio di cui sopra in Lontano dal paradiso, rifacendosi in quel caso ai colori accesi tipici dei melodrammi di Douglas Sirk – Lachman ha illuminato anche il cinema di Soderbergh in Erin Brokovich e L’inglese e quello di Ulrich Seidl.

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