#Oscars2018 – Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson

Anderson cuce qui uno dei suoi vestiti più perfetti per poi sabotare ogni ricamo, forzare ogni sutura e infiammare di passione il “fuori campo” delle sue inquadrature. In sala dal 22 febbraio

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Reynolds has made my dreams come true.
And I had given him what he desires most in return…

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Il volto di una donna fuoriesce dal buio, in primissimo piano, come un’auratica figura novecentesca che dalla prima battuta orienta ogni traiettoria immaginaria del nostro film. Dal sogno al desiderio, e viceversa: parte da qui il flashback sul percorso di una vita (quella di Reynolds Woodcock, il più importante sarto londinese dei fatidici anni ’50) rimontata nel tempo di cicliche colazioni (Citizen Kane e le ritornanze di Welles punteggiano nuovamente i pregiati tessuti andersoniani) e infettata da un insinuante masochismo che contagia pian piano azioni e percezioni (Hitchcock, Rebecca e ogni donna che visse due, tre, infinite volte). Il filo nascosto , pertanto, va cercato nella ricca Londra pre swinging, quando i traumi della “Storia” venivano ancora sublimati nello stile e quando il racconto delle “storie” era ancora assorbito dalle convenzioni; poi nei sontuosi interni di una casa/atelier che muta forme e volumi a seconda del punto di vista (come fossimo in un overlook kubrickiano che ci riguarda nuovamente), oppure nei micromoti di un volto-paesaggio che riempie sempre l’inquadratura (Daniel Day Lewis nell’ennesima età dell’innocenza di vertiginosa aderenza emotiva). Ecco: vedere un film di Paul Thomas Anderson nel 2018 è un po’ come riavvolgere il nastro delle nostre passioni cinefile, fissandole poi in curatissime inquadrature/icona (la fotografia è idealmente firmata dallo stesso regista) che esigono ancora la pellicola come medium identitario e il grande schermo come interfaccia dei sogni. Un museo del cinema passato? Forse. Ma che ha ancora il coraggio di far danzare fantasmi terribilmente tangibili nell’anestetico flusso mediale dei nostri tempi.

3Il filo nascosto, innanzitutto, è un film sullo sguardo e sul potere dello sguardo: «se giochiamo a chi abbassa per primo gli occhi perderai sicuramente tu!», dice Alma (l’efficacissima Vicky Krieps) al primo appuntamento con Reynolds. E in queste parole è già pienamente (di)segnato il pericoloso abisso sentimentale che Woodcock brama e allontana ossessivamente, come in un Fort-Da di freudiana memoria, gioco che Anderson configurerà con diamantina precisione. Perché il sarto/creatore lotta strenuamente per non tessere il proprio destino, limitandosi a dare forma ai desideri delle sue ricche committenti e concedendosi solo dei criptici messaggi nascosti nei tessuti (come quei codici cifrati che da Sydney in poi il regista dissemina in ogni suo film) che lo facciano vivere nel fuori campo delle sue creazioni. La giovane Alma, pertanto, arriva come il definitivo Phantom Thread: anomalo raggio di sole in una mattina di vacanza, vizio di forma che ridiscute la perfetta magnolia del tempo, apparizione fantasmatica che ubriaca d’amore il presente e ridiscute ogni traiettoria futura. E allora Anderson non può che azzardare pieghe inedite per questo nuovo vestito, sperimentando nuovi tagli (di montaggio) e pedinando la passione che cova sotto la pelle di Reynolds in continui dettagli (e dissolvenze sui dettagli) che forzino gli spazi chiusi verso un oltre dell’immagine.

2È vero. Il filo nascosto è un film sin troppo perfetto, a tratti respingente, cucito con cura maniacale dal miglior sarto americano in trasferta europea che dopo Il petroliere, The Master e Vizio di Forma aggiunge un altro capitolo al suo ambiziosissimo trattato sui rapporti di potere nella cultura occidentale. Tutto è programmato al dettaglio? Sì ma… è proprio in questa liminale dialettica tra il sogno (dell’austera autorialità novecentesca) e il desiderio (di superare quella forma nella contingenza del sentimento…”for Jonathan Demme“) che Phantom Thread ci sfiora l’anima oltrepassando la sua levigata confezione. Anderson giustifica pienamente il suo stile aderendo senza compromessi alle blindate barriere emotive del protagonista: nella sequenza del ballo di fine anno Reynolds corre ingelosito nella sala e guarda Alma dall’alto in un’ennesima finestra sul cortile; poi scende nell’arena, accetta il pericolo di un contatto e noi spettatori siamo con lui, avvertiamo il suo desiderio con inaspettato pathos… ma Woodcock raffredda il momento per l’ennesima volta. Ci lascia da soli a immaginare. Cinema costantemente messo in potenza, allora, che allude a un universo visibile avvertito nel fuori campo di ogni singola inquadratura, anche a distanza di giorni, ripensando a immagini talmente potenti che dialogano ancora con la nostra quotidianità.

4Ci siamo: Paul Thomas Anderson confeziona qui uno dei suoi vestiti più perfetti e abbaglianti per poi sabotare ogni ricamo, forzare ogni sutura (immaginaria) e sfidare il suo antico fantasma che eternamente ritorna. Un film che sonda con raggelante consapevolezza i legami familiari e i rapporti di potere nella coppia, arrivando però a nutrirsi di veleno per superare gli sche(r)mi e accendere finalmente la passione. Ed è qui che Il filo nascosto si scopre in tutto il suo straziante e fanciullo candore – dal mito Edipo a quello di Pigmalione – contaminando il suo stesso corpo per poter infine sfiorare (fosse solo per un singolo attimo!) l’immagine vivente del proprio desiderio. Avvelenami e tienimi stretta la mano: il cinema, in fondo, non è sempre stato questo?

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