Paddy Considine. Ritratto di un antidivo

Viserys Targaryen è solo il culmine di una parabola attoriale memorabile, lontana dai più consueti canoni dello stardom. Ripercorriamo la carriera dell’attore inglese, tra sodalizi e ruoli formativi

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C’è sempre un senso di piacevole dissonanza quando un artista che si è apprezzato per la sua irriducibilità ai richiami dello stardom, si ritrova improvvisamente sotto i riflettori della popolarità. Perché per Paddy Considine il ruolo di Viserys Targaryen in House of the Dragon non è solo il punto cardinale di una parabola artistica straordinaria: è l’accesso diretto allo star system, l’entrata in quella “macchina dello spettacolo” che poco ha a che vedere con l’inclinazione sociologica della sua arte, e che sulla base di questa stessa paradossalità, comporta per l’attore inglese la necessità di rinegoziare il rapporto che lo lega al grande pubblico. Un processo considerato naturale per tutti quegli interpreti che ricercano ossessivamente il successo, ma che nel caso di Considine sembra quasi inverosimile, proprio perché cozza con la natura operaia dell’ambiente a cui àncora, sin dagli albori, i codici della sua espressione artistica. Secondo una vocazione profondamente autoctona, che senza pregiudizi né sovrastrutture di alcun tipo, vive in ragione di quella stessa marginalità culturale che contraddistingue il suo mondo di provenienza.

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Nato e cresciuto a Burton-upon-Trent, lontano dagli epicentri dell’entertainment britannico, Paddy Considine mutua i suoi codici divistici direttamente dalla natura industriale delle Midlands inglesi. È in questi luoghi così grigi e viscerali, distanti dalle tradizioni estetiche su cui si fondano le traiettorie culturali del paese, che l’attore definisce le matrici strutturali della sua vocazione artistica, votata sin dal principio all’indagine di uomini controversi, abituati ad esaltare la violenza, la rabbia e le fragilità interiori a sistema espressivo delle loro stesse debolezze. Non è un caso, allora, che Considine trovi nel suo amico e compagno di (dis)avventure Shane Meadows la valvola di sfogo delle sue necessità istrioniche: solo lui poteva veramente coglierne le motivazioni di fondo, proprio perché aveva vissuto sulla pelle lo stigma di un’infanzia travagliata, trascorsa tra le maglie di una working-class sempre più marginalizzata e dimenticata dalle politiche neoliberiste della Thatcher. E in questo senso il film d’esordio della coppia, A Room for Romeo Brass (1999) è di importanza assoluta per il suo percorso formativo. Oltre a costituire l’inizio di uno dei sodalizi centrali del cinema indipendente inglese del 21º Secolo, permette a Considine di incorporare il primo di una lunga serie di misfits. Di uomini disturbati, fragili, insicuri, incapaci del tutto a conformarsi alle regole di una società che li rifiuta. E dalle cui sofferenze lascia sempre trapelare un grido d’aiuto, una vulnerabilità intensa e toccante, che per quanto offuscata dall’aggressività di fondo, non resta mai sepolta sotto la superficie.

Sin da subito è evidente che Paddy Considine abbia qualcosa di speciale. Diversamente dagli attori inglesi della sua generazione, non ha alle spalle una lunga formazione teatrale, né esperienze di alcun tipo nella recitazione televisiva. Eppure il suo passato non dà mai l’impressione di essere un ostacolo. Al contrario, l’assenza di un’attitudine accademica lo porta a fare delle sue radici la materia di indagine prediletta. A raccontare cioè quelle realtà subalterne a cui lega da sempre il suo intero immaginario. Al punto che un outsider come Paweł Pawlikowski lo scrittura per i suoi primi lungometraggi di finzione, Last Resort e My Summer of Love, dove Considine ha finalmente la possibilità di mettere in mostra il suo enorme talento, e declinare di conseguenza quell’archetipo del “maschio inglese aggressivo” verso orizzonti sempre più personali ed emotivi. Inizia così un percorso che lo porterà ad incarnare una serie di figure di uomini comuni alle prese con le sofferenze, le lotte, e le piccole gioie della vita domestica: le insicurezze economiche di un immigrato irlandese di In America o i disturbi psichici del giovane proletario di My Wrongs (2002) riflettono in questo senso una preoccupazione quasi ossessiva per le tribolazioni quotidiane dei più fragili, di cui il personaggio di Richard in Dead Man’s Shoes (2004) sarà il riflesso più alto e lacerante. È nuovamente nel rapporto con Shane Meadows – a cui gli si affianca in fase di scrittura – che Considine trova le coordinate ideali a cui affidare una rielaborazione gretta e viscerale della tematica del dolore. Quell’argomento, che come una lama affilata, attraversa la memoria del padre e degli spazi industriali in cui ha formato i codici della sua speculazione. E che reitererà nelle sue prime incursioni registiche.

Non è un caso che i suoi due unici film da regista, Tyrannosaur e Journeyman (2017) abbiano al centro la rielaborazione di una crisi, che da collettiva diventa personale. Al punto che, nel primo film, il corpo muscolare e robusto di Peter Mullan si fa proiezione filmica della personalità strabordante (e terrificante) del padre dell’artista. Un uomo fondamentale nella vita di Paddy Considine, con cui l’artista ha vissuto “alcune delle esperienze più intense e memorabili”, ma che diventava incontenibile con i suoi “colleghi di pub” nel momento in cui ingollava litri di birra. Ma come accade per tutti quegli operai inglesi intrappolati in un ciclo di violenza, alcol e rabbia – si pensi a Nil By Mouth (1997) – sapeva anche ridere delle sue stesse difficoltà. Ed è in questa ambiguità tipica di una certa mascolinità proletaria, che Considine trae gli spunti per il suo mai celato spirito comico. A guardare la sua filmografia, le incursioni nella commedia sono tanto numerose quanto notevoli: Hot Fuzz, La fine del mondo, 24 Hour Party People, Morto Stalin, se ne fa un altro. Quasi a testimonianza di come sia possibile trovare dei sentimenti positivi, anche in faccia alle più brutali realtà. “È proprio questo che la classe media con capirà mai” dichiara l’attore in un intervista rilasciata a British GQ in merito ai suoi trascorsi a Burton. “Che si può essere felici, anche se non hai i soldi”. A questo punto, allora, non è dato sapere cosa la notorietà gli riserverà all’orizzonte, ma è sicuro che il ruolo di Viserys Targaryen non snaturerà il suo approccio al dramma. “Dopo un personaggio del genere” si domanda giustamente l’interprete e regista “cosa dovrei fare?”. Difficile a dirsi. Quel che è certo, è che niente potrà veramente cambiare la vocazione espressiva di un artista mai sceso a compromessi con i canoni dello stardom. Di un uomo, che nonostante i richiami di Hollywood, rimarrà in fondo sempre lo stesso. Un insanabile antidivo.

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