PAMPLONA PUNTO DE VISTA – Il documentario in soggettiva

Dai film della selezione ufficiale del festival di Pamplona giunto all’undicesima edizione, emerge l’immagine di un documentario che parte sempre da una traccia intima, personale

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E se il punto di partenza fosse sempre ciò che è dentro e non ciò che è fuori? La vita prima del mondo? Dai film della selezione ufficiale di Punto de Vista, il festival di Pamplona giunto all’undicesima edizione (6-11 marzo 2017), emerge con forza l’immagine di un documentario in soggettiva. Ma non nel senso, scontato, che il punto di vista sul reale è sempre soggettivo. Ma nel senso più stretto che al centro dell’urgenza, da un lato all’altro della prospettiva, c’è proprio il soggetto che osserva, l’io che parla di sé e solo a partire dal può aprirsi al mondo. Che l’unica realtà raccontabile sia quella personale?

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la deuxième nuitLa deuxième nuit di Eric Pauwels e 5 October di Martin Kollár perseguono l’idea di un documentario che sia la traccia di un racconto intimo, privato. Seppur con forme e prospettive profondamente diverse, per entrambi è questione di vissuto. Pauwels fa i conti con il lutto per la morte della madre ottantanovenne, mentre Kollár segue un estate di passione del fratello maggiore Jan, nell’attesa di un delicato intervento chirurgico per risolvere una grave deformazione al volto che ne mette a repentaglio la vita. Il regista belga, allievo di Jean Rouch, si muove sul filo dei ricordi, tra ipotesi frammentarie di una messinscena, di un impossibile ricostruzione dell’infanzia e adolescenza, e le immagini e i suoni di un archivio familiare ripercorso secondo la realtà fragile dei sentimenti, tra il dolore, la malinconia, la solitudine, l’amore. Pauwels mette così a nudo un vero e proprio diario intimo, in cui la sua voce detta il ritmo alle immagini, tra racconti, dettagli, riflessioni sul tempo e la perdita inevitabile, a cominciare da quella fatidica seconda notte dopo la nascita, in cui il bambino e la madre avvertono con più intenso dolore il distacco avvenuto, quel taglio del cordone che sarà sempre il segno della loro prossimità e della loro differenza. Ma questo ritorno ai primi giorni senza madre (dopo la nascita, dopo la morte) è anche un interrogarsi senza posa sui motivi delle scelte fatte, sul senso della propria vocazione, di una carriera di regista condotta senza compromessi, molto spesso ai confini, ai margini del mondo e dell’industria (Pauwels ha girato a lungo in Estremo Oriente…).“Solo nel cinema puoi guardare il sole e la morte in faccia”.  Il cinema, prima suono e poi immagine – proprio come Dio ha creato il mondo con la Parola – va dalla luce all’abisso. O meglio dall’abisso alla luce. Per Pauwels è l’espressione personale e la via di comprensione. È dappertutto, sin dai primissimi minuti in cui si rende omaggio al dottor Mario Brenta, il regista che “fugge la morte”, che coi suoi magnifici baffi canuti parla della seconda notte. È nella pagine di Camus e di Pirandello e nei racconti di famiglia, nelle ombre cinesi e in un disco che ruota su un piatto la Marcia di Radetzky. È un’illuminazione che squarcia le tenebre e apre l’interiorità al mondo per ricucire le distanze, gli strappi, tutti i silenzi, passeggeri o definitivi. Per questo il film parlato di Pauwels non è mai davvero luttuoso: al di là della malinconia, mantiene sempre il piacere del gioco e dell’invenzione e racconta tutta la sua disponibilità alla vita.

 

5 octoberAl contrario Martin Kollár decide di rinunciare alla parole, lasciando alle sole tracce scritte del diario di Jan il compito di suggerire un percorso che sia d’ausilio alle immagini. E sono immagini a cui Kollár infonde tutta la sua bravura fotografica e la sua vena d’artista, a cominciare da quel mare spazzato dal vento nell’incipit. In fondo, ciò che si racconta è un viaggio alla deriva, la fuga senza meta di Jan che parte dallo Slovacchia con la sua bicicletta e attraversa l’Europa quasi a caso, nell’attesa della data fatidica dell’operazione, il 5 ottobre appunto. Montagne, laghi, spiagge deserte: il paesaggio, a volte magnifico, altre volte terribile o squallido, dialoga con il personaggio, questo corpo abnorme che, però, è di enorme tenerezza e simpatia. Una specie di orco barbone chapliniano che dorme per strada nel suo sacco a pelo e trattiene la paura in uno stoico mutismo. La sua storia si scorge per brevi, fulminei accenni. Ma sono solo indizi dispersi in una specie di bolla sospesa sull’orizzonte di un’attesa. Quel che accadrà, sarà consegnato a un’ultima immagine, nel finale, al termine dell’odissea.

 

conversoEcco, i film di Pauwels e di Kollár sono i due casi limite di questa forma di documentario “in soggettiva”, rivolto alla scoperta e al racconto del vissuto. Ma anche Converso – il titolo che rappresentava la Navarra in quest’edizione di Punto de Vista – ha un punto di partenza “familiare”, nella misura in cui David Arratibel cerca di comprendere le motivazioni che hanno spinto le sorelle e la madre ad abbracciare con fervore la fede cattolica. All’origine, forse, c’è la relazione tra la maggiore e Raul, l’organista della chiesa di Pamplona. Ma è solo un pretesto, un presupposto esteriore che nulla dice di quanto avviene nel profondo. L’obiettivo di Arratibel è arrivare a toccare l’intoccabile, sfiorare l’origine profonda della conversione. La sua è una vera e propria indagine, condotta dalla sua prospettiva agnostica, quanto meno scettica, e svolta attarverso il dialogo vis-à-vis, le forme canoniche del documentario intervista. Ma a mano a mano che si procede con il confronto, diviene chiaro che per Arratibel l’obiettivo non è tanto arrivare al mistero della fede, quanto cercare di comprendere come e perché le scelta di vita personali possano poi ritornare al mondo, influendo sui legami e l’equilibrio precario degli affetti. In fondo, pur nella sua apparenza colloquiale, Converso assomiglia a un regolamento di conti familiari, a un complicato percorso di riavvicinamento di un uomo che si sente estraneo, alieno ai percorsi intrapresi dagli altri, dai propri cari. Un tentativo di riconciliazione. Ancora una volta l’urgenza personale è la questione centrale, la possibilità di articolare, attraverso le forme del “cinema del reale”, un discorso sentimentale, che parta dall’individuale per abbracciare poi la trama delle relazioni.

 

poster punto de vistaÈ come se il documentario, quel cinema che ha ancora, necessariamente, per costituzione, una realtà da presupporre e da affrontare (pur nella libertà dei discorsi), avesse ormai riconosciuto definitivamente la perdita di consistenza del mondo esterno, questo suo progressivo ritirarsi e inaridirsi. Non che non esistano ancora territori da esplorare (l’etnografia misterica di Land Within di Jenni Kiwistö) o una Storia a cui tornare, da riattraversare attraverso nuove forme, magari letterarie, che ne possano ridefinire i contorni (Treblinka, di Sérgio Tréfaut). Ma le cose, gli oggetti a cui aggrapparsi appaiono sempre più incerti e nascosti, sepolti sotto la coltre delle virtualità e delle astrazioni o tra gli impianti e le strutture di un funzionalismo economico, geometrico meccanico, le costruzioni spettacolari e artificiali degli sguardi e dei discorsi ufficiali. E allora tanto vale partire da sé, dal lato interno, e da lì mettersi alla ricerca di spazi di realtà non ancora addomesticati, di nuove connessioni e ipotesi. In fondo, non può essere che così. Il documentario come pratica e come esperienza. Uno sguardo che si apre al mondo, il soggettivo che entra in relazione con gli altri e con le cose. Fino a entrare come un cuneo nella dimensione del reale. Scoperta e azione. È per questa via che l’intimo può arrivare a farsi politico, come in We Make Couples di Mike Hoolboom che vuole essere la risposta a quella naturale invasione del politico nel privato, come racconta Europe, She Loves di Jan Gassmann. Il viaggio nella precaria vita di coppia al tempo delle crisi, in Hoolboom si rovescia in un assunto radicale: la coppia, con tutte le sue implicazioni di desiderio, può essere una forma di resistenza e di scardinamento del sistema attuale, che normalizza, cioè rende norma l’eccezione e appiattisce l’individualità in una trama di relazioni standardatizzate? Che poi, tornando alla radice delle cose, è come chiedersi quanto l’amore, la passione che spinge all’altro, possa essere una forma di liberazione e di unione e non, semplicemente, un’altra schiavitù, un carcere o una fuga. Liberazione delle energie, dei sentimenti, delle emozioni più profonde e autentiche, non più trattenute dalle esigenze economiche.  Se non che per Hoolboom tutto questo discorso investe la tecnica e la pratica della proiezione, le immagini e la loro capacità di aprirsi all’altro o all’altrove, e di attingere alla dimensione della verità. Soprattutto ora che il digitale ha cancellato la necessità del referente reale. Ed ecco che per tutto il film, con un’ostinazione quasi maniacale, Hoolboom sembre voler attraversare  tutte le forme esteriori per scomporre l’apparente opacità delle immagini, mostrandone tutte le strutture immanenti, i surplus artificiali, gli effetti nascosti. Dubitando dell’intima forza eccentrica delle immagini, si concentra sugli strati più interni di ogni frame, in un procedimento analitico che disseziona e sfalda il corpo del film, fino a lasciarne a terra la carcassa inanimata. E sembra quasi che We Make Couples rimanga vittima di quella stessa freddezza meccanica, quella dittatura del programma, da cui sogna di liberarsi.

 

The Host1Forse la migliore risposta arriva da The Host, di Miranda Pennell, il film vincitore del Gran Premio Punto de Vista a la Mejor Película, che, partendo dal caso di studio e non dall’assunto teorico, mostra tutta la disponibilità dell’immagine, anche di quella ufficiale, già data e centrata, a offrirsi ad altre connessioni e a tracciare altre direzioni di senso. Ancora una volta il punto d’osservazione iniziale è privato, una vicenda familiare che si intreccia con i percorsi e le dinamiche geopolitiche della Storia. I genitori della Pennell, a partire dagli anni ’60, lavorano per la British Petroleum, la compagnia petrolifera inglese che dal 1908 al 1979 ha avuto i suoi impianti di estrazione e raffinazione in Iran, nella zona di Abadan. Fu la BP (nata col nome di Anglo-Persian Oil Company) a premere nel 1953 per il colpo di stato orchestrato dalla CIA e dai servizi segreti inglesi, al fine di rovesciare il governo di Mohammad Mossadeq, che aveva deciso la nazionalizzazione degli impianti. Con il ritorno dello Scià Reza, asservito agli interessi economici occidentali, la British Petroleum poteva continuare indisturbata la sua attività di sfruttamento delle risorse e della manodopera iraniane. Almeno fino alla rivoluzione del 79. Partendo dagli archivi familiari, la Pennell mette in piedi un lavoro di ricerca a tappeto. Raccoglie le immagini d’archivio ufficiali, le mappe e le cartografie originarie, i progetti di costruzione degli impianti, le note di lavoro del geologo Christian O’Brien, che negli anni ’30, per conto dell’Anglo-Persian Oil Company, esplorava le regioni del Sud Ovest iraniano, fino a scoprire i resti della ziqurrat di Choqa Zanbil. E a poco a poco, emerge il quadro di un’impresa coloniale, di un ingente operazione di svilimento dell’identità e delle risorse di un popolo e di un territorio in nome di ragioni economiche preminenti. In cui il gusto esotico per le civilità lontane e le storie del passato antico è solo la maschera di una mentalità colonialista che cancella le ragioni del passato recente, del presente e del futuro. Quando la Pennel, come in una nota a margine, fa questa considerazione, è come se, insieme a tutti gli approcci più aperti e sinceramente scientifici, insieme a tutte le archeologie, geologie, etnologie, smentisse in un attimo anche il dolce ricordo della sua infanzia, custodito da quei filmini familiari, in cui i suoi cari si inoltrano nelle antiche rovine o si soffermano sugli usi e costumi locali. E lo fa senza la virulenza del partito preso, senza l’ausilio di una manipolazione retorica. Anzi smontando la retorica dei racconti ufficiali, per semplice giustapposizione di un’immagine all’altra. Come nella sequenza di foto che mostrano e celebrano lo sviluppo economico e intellettuale della gioventù iraniana degli anni ’50 e ’60, lanciate verso le magnifiche sorti del progresso e della rispettabilità occidentale, scolpiti nell’insieme del consiglio d’amministazione della BP, messo in posa come fosse marmo. Ecco, un’immagine è sempre quell’immagine, è sempre l’evidenza letterale di ciò che inquadra e mostra, colto nello sforzo della ripresa. Ed è un deposito del tempo, come una formazione calcarea, uno strato geologico di cose viste e vissute, fatte memoria. Ma ogni immagine poggia anche su una curva di tensione, che la spinge verso i margini esterni, quelli che confinano con l’altrove, con ciò che è invisibile eppure c’è, è lì e allunga la sua ombra sulle figure e sullo sfondo, aspettando di essere cercato e toccato.

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