Papillon, di Michael Noer

Tornano alla ribalta le memorie di Henri Charrière. Dalla tensione di un carcerario di evasione l’idea è di passare a un bromance tinto di melodramma. Ma tutto rimane solo un piano sulla carta

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Tornano alla ribalta le memorie di Henri Charrière, alias Papillon, ladro nella Parigi degli anni ’30, condannato all’ergastolo per un omicidio mai commesso e deportato nella terribile colonia penale della Guyana francese, dove il regime della tortura e della privazione si sostituisce a qualsiasi ipotesi di diritto e riabilitazione. Il bestseller, pubblicato nel 1969, era già stato trattato “a caldo” nel fortunato film di Franklin J. Schaffner, apoteosi del genio action di Steve McQueen, ossessionato dal fantasma della libertà e dalla veridicità della prova fisica della performance (la leggenda del tuffo finale senza controfigure…). Ecco, coerentemente con questa centralità dell’azione, il trattamento di Schaffner (da una sceneggiatura di Dalton Trumbo e Lorenzo Semple Jr.) eliminava quasi completamente l’elemento psicologico, in nome di uno stile “tutto cose”, concentrato sulle situazioni e sugli eventi, e di una crudezza estrema nella descrizione delle condizioni dei prigionieri. Anche se, in fin dei conti, il film smarriva l’efficacia del piano di fuga e l’economia finalistica dei migliori escape movie, per disperdere la sua energia in un’eccessiva lunghezza, tra le stesse esagerazioni dei racconti di Charrière e i tempi morti di incubi materializzati in un’immagine neutra e convenzionale. Il nuovo adattamento del danese Michael Noer, supportato alla scrittura da Aaron Guzikowski, cambia in parte strategia. E sceglie una strada più introspettiva, nonostante Charlie Hunnam metta in gioco tutto, fiato e muscoli, per stare al passo di Steve McQueen. Dal secco “realismo” dell’azione si passa piano piano al racconto interiore del protagonista e, ancor più, alle dinamiche fra i personaggi che diventano il vero cuore emotivo della storia.

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Basterebbe pensare alla scena in cui, per la prima volta, Papillon viene rinchiuso in isolamento. Nel film del ’73, l’ingresso nella cella viene mostrato con un’inquadratura dall’alto, dalla prospettiva dei secondini. Vediamo Steve McQueen tra le sbarre che fanno da soffitto alla cella. Come, se in qualche modo, pur tra mille incertezze, Schaffner si fosse posto il problema di far aderire il proprio sguardo all’indifferente oggettività degli spazi, quella geometria concentrazionaria della colonia penale. Qui, invece, il punto di vista è tutto interno, Michael Noer non si allontana da Charlie Hunnam, lo accompagna, ne segue le reazioni, il suo tentativo di abituarsi alle nuove restrizione, di opporre una resistenza fisica e psicologica al regime imposto dai carcerieri. E in questo senso, diviene centrale il momento del “rifiuto”. Quando il direttore della colonia chiede a Papillon chi è stato a mandargli le noci di cocco, Schaffner non fa tante storie. Il diniego di Steve McQueen è immediato, di puro istinto. Non c’è bisogno di sottolineare il valore “morale” del suo silenzio. Tanto più che, per un istante, quando si vede cadere un dente, ormai quasi del tutto ridotto al grado zero, Papillon sta per cedere. In Noer, tutto questo momento è amplificato: le richieste sono ripetute, le tentazioni “nel deserto”, ma non c’è dubbio né vacillamento. Il cardine drammatico del segmento posa sul sacrificio della scelta, sulla dedizione al legame con Louis Dega, piuttosto che sull’effettiva durezza delle privazioni. Si compie definitivamente la mutazione dello spirito. Il punto del film di Noer è un altro: non più l’ossessione per la libertà di Papillon, furiosa, intransigente, ribelle, ma la profondità dell’amicizia con Dega, il rapporto tra due uomini che condividono lo stesso destino di sofferenza. E tutto, in fondo, si conforma a quest’obiettivo, a cominciare i cambiamenti rispetto alle vicende dell’originale: il secondo tentativo d’evasione, la separazione, persino quella coda finale da “fatto realmente accaduto” in cui Charrière sembra consegnare le sue memorie anche per tributare un omaggio all’amico perduto. Per arrivare ovviamente all’interpretazione emotiva di Rami Malek che si discosta dall’irresistibile e ironico autismo da Actors Studio di Dustin Hoffman. Dalla tensione di un carcerario di evasione l’idea è di passare alla commozione di un bromance tinto di melodramma. Ma tutto rimane solo un piano sulla carta, un’intenzione che non si traduce nelle immagini.

 

Titolo originale: Id.

Regia: Michael Noer

Interpreti: Charlie Hunnam, Rami Malek, Tommy Flanagan, Eve Hewson, Roland Møller

Distribuzione: Eagle Pictures

Durata: 133’

Origine: USA/Spagna/Repubblica Ceca, 2018

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