Paradiso in vendita, di Luca Barbareschi

Un’operetta morale sul valore del confronto culturale tesa, però, tra paternalismo e didascalismo a tutti i costi, mai così distante dal mondo e dagli uomini che vuole raccontare. Progressive Cinema

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Un drone mostra dall’alto la bellissima isola siciliana di Finicusa (in realtà si tratta di Filicudi) , raccontandone gli anfrantti. Stacco. Parigi, una manifestazione di pescatori contro il governo francese: si cerca l’istintualità del livello strada, ma il respiro è troppo rigido, a tal punto che i manifestanti non riescono a non essere altro che figuranti.

La verità delle storie sembra essere ancora qualcosa di difficilmente afferrabile, per il cinema di Luca Barbareschi, che torna a Roma un anno dopo The Peninent con Paradiso in vendita. Tra i fatti c’è sempre il set, lo sguardo della regia a mediare. L’approccio non è mai davvero limpido, un po’ come l’atteggiamento bifronte di François, ma risoluto negoziatore governativo incaricato da Parigi di convincere a ogni costo proprio gli abitanti di Finicusa ad abbandonare l’isola, le loro case e le loro attività per cederle al governo francese, che ha comprato il territorio dall’Italia, da anni bloccata in una grave crisi economica che l’ha costretta a vendere parte dei suoi territori ai vicini europei. Ma la politica c’entra fino ad un certo punto. Paradiso in vendita (prodotto anche da fondi francesi), parrebbe voler parlare di noi attraverso il punto di vista di Parigi ma poi si dimentica subito dello sfondo socioculturale, quasi a volerlo considerare un fatto tutto francese, proprio del loro cinema militante, le cui dinamiche emula nel primo atto anche attraverso la buonissima presenza scenica del bravo Bruno Todeschini.

Ma, appunto, è solo un’imitazione, un’idea, un progetto ipotizzato e mai davvero colto. Non appena il racconto si sposta in Italia non solo Todeschini perde molta della sua tenuta sul racconto ma il film cambia pelle e sembra voler divenire una versione più cinica e patriottica del dittico Benvenuti al Sud/Benvenuti al Nord (e, ovvio, dell’originale Giù al Nord di Dany Boon) a cui, tuttavia, sulla lunga distanza, sembra mancare tutta la complicità affettuosa, la vicinanza complice con cui la regia e la scrittura seguivano lì le avventure dei due protagonisti.

Qui invece il punto di vista è quasi sempre distanziato rispetto al centro dell’azione, quasi turistico nei momenti in cui si prova a descrivere la quotidianità di Finicusa, paternalista quando osserva i siciliani forse troppo arroccati nelle loro arcaiche tradizioni e ossessivamente didascalico quando si sposta su François, che con il tempo scoprirà tutto il fascino della terra che avrebbe dovuto conquistare. Paradiso in vendita è sempre più un’operetta morale, un racconto educativo tutto, però, in due dimensioni, puntellato in gran parte di figurini più che di personaggi, a cui manca una vera drammaturgia.

Così per gran parte del tempo il film si lancia in questo confronto tra François ed i cittadini di Finicusa che procede tuttavia senza una vera e propria struttura, andando avanti piuttosto a suon di sfottò, dispetti, sotterfugi, un atteggiamento tutto di pancia che probabilmente non fa onore al racconto di entrambe le parti. A emergere, dal caos delle opinioni, la morale, a suo modo discutibile, che la rivoluzione cercata dagli abitanti di Finicusi sia quella “addomesticata” dalla cultura alta, borghese, piuttosto che quella istintiva, rabbiosa, dei cittadini. Non è un caso, forse, se alla fine, il punto di svolta della vicenda partirà dal confronto tra François e la sindaca dell’isola, professoressa di scuola e poliglotta. Al paese non resta che essere semplice comparsa del cambiamento. Ma così il meccanismo non può che incepparsi, girare a vuoto. Il racconto, che, certo, fino a quel momento non si era certo lanciato a ipotizzare percorsi narrativi coraggiosi si chiude in un ultimo atto quieto, che procede per tappe obbligate, in cui, soprattutto, la maturazione di François pare soprattutto un fatto privato, un soliloquio ripiegato su sé stesso, come se, malgrado le apparenze, il protagonista non riuscisse comunque a guardarsi attorno, a legarsi a noi. E quando François prenderà atto dei suoi errori una lacrima righerà il suo volto, ancora un atto duale, forse, tanto un dettaglio, a suo modo manierista, per raccontare la drammaticità del momento di consapevolezza, ma forse anche un segnale di liberazione dalla rigidità in cui il racconto l’ha tenuto finora.

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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Il voto dei lettori
2.6 (5 voti)
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