Paris, Texas, di Wim Wenders
Palma d’oro a Cannes nel 1984, il film di Wenders che meglio amalgama il cinema americano con il Nuovo Cinema Tedesco: il viaggio del protagonista si trasforma in un percorso circolare ed eterno.
Gli spazi infiniti del deserto americano attraversati da un vagabondo in chiaro stato confusionale: è l’inizio folgorante di Paris, Texas che gioca da subito la carta dello spaesamento e del contrasto. Wim Wenders inquadra rocce, cieli e orizzonti stabilendo una nuova geografia interiore: questi luoghi non sono più semplici sfondi ma indizi rivelatori di uno stato dell’anima. Travis (Harry Dean Stanton) li attraversa come un fantasma alla ricerca del proprio luogo d’origine, tabula rasa di memoria e linguaggio. Là dove è la nascita di tutte le cose, lì si compie anche la loro dissoluzione, in un viaggio che è principalmente dimenticarsi di sé e imparare a guardare il mondo. La fotografia di Robby Müller inonda queste terre desolate di una luce che William Faulkner avrebbe definito “fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica”. Travis ha lo stupore catatonico di un Ulisse che ha perso contemporaneamente Penelope e Telemaco e non ritorna a casa ma, amaramente, nel nulla che lo ha generato. La chitarra di Ry Cooder accompagna con una sottile malinconia questa disgregazione dell’unità familiare, in uno strappo del passato che il tempo non riesce a risanare. Travis viene recuperato dal fratello Walt (Dean Stockwell) ma fatica a inserirsi nella vita civile dopo quattro anni di esilio “in the middle of nowhere”.
Ma Paris, Texas nella seconda parte diventa un atto di contrizione, una consapevolezza che si trasforma in espiazione. Ritornato in sé, venendo a contatto con Hunter, il figlio perduto, Travis ne assume la purezza dello sguardo. Esemplare la scena di padre e figlio che si copiano le camminate ai lati opposti della strada: in quel campo-controcampo risiede tutta la magia di un cinema che svela il segreto del sentimento nascente.
Wenders pone la macchina da presa ad altezza bambino e viaggia da Los Angeles ad Houston con questo particolare punto di vista: le insegne al neon, i tramonti rosso fuoco, le nuvole basse. Tutto è visto come se fosse la prima volta. L’utilizzo delle lenti bifocali pone in primo piano contemporaneamente paesaggio e volto, sottolineando l’importanza dell’elemento naturale sulla mutazione dell’espressione umana. Jane (Nastassja Kinski) si guadagna da vivere lavorando in uno squallido peep-show dalle forti tinte bluastre e rossastre. E’ la madre dimenticata, la moglie traditrice. Wim Wenders, in maniera geniale, mette Travis e Jane uno di fronte all’altra separati da una parete di vetro trasparente che consente all’uomo di potere osservare senza essere visto. Dalle autostrade assolate americane passiamo improvvisamente ai toni scuri di un teatrino di periferia con annessa rock band. Nell’ultimo confronto in cui è la voce umana a prendere il sopravvento (Jane ammetterà a capo chino “Ogni uomo ha la tua voce”), Sam Shepard (co-sceneggiatore del film insieme a Wenders e Kit Carson) propone un dialogo molto realistico, fatto di ammissioni e di accuse, di consapevolezza e perdono, di vigliaccheria ed eroismo. Proprio questa lunga confessione finale trasforma l’assenza visiva in flusso di coscienza in “vivavoce,” restituendo la drammaticità di una storia d’amore impossibile archiviata in un Super 8 amatoriale. Jane e Travis si scambiano continuamente i ruoli, dandosi le spalle, tra la luce e l’oscurità. Nastassja Kinski usa tutta la sua bravura d’attrice nella comunicazione non verbale passando da un atteggiamento offensivo ad uno di placida arrendevolezza. Nel momento in cui si riconoscono, il loro sentimento è diventato di pietra. Jane spegne la luce e può adesso vedere al di là del vetro. Travis compie l’unico gesto che possa dare un senso alle loro esistenze; poi può riprendere il suo viaggio alla cieca, lasciando che siano i luoghi a dettare la direzione.
Palma d’oro a Cannes nel 1984, Paris, Texas è il film di Wenders che meglio amalgama il cinema classico americano con il Nuovo Cinema Tedesco: tra deserti aridi e intrecci di autostrade il viaggio del protagonista si trasforma in un percorso circolare ed eterno, una odissea nello spazio interiore con qualche accecante barlume di consapevolezza.
Titolo originale: id.
Regia: Wim Wenders
Interpreti: Harry Dean Stanton, Dean Stockwell, Nastassja Kinski, John Lurie, Justin Hogg
Durata: 150′
Origine: Germania, Francia, 1984
Genere: drammatico