Pasolini, di Abel Ferrara

Ferrara gira un film rubato, scippato al caos. Che non potrà fare a meno di continuare nella perversione del suo vizio. Con la consapevolezza che un film riuscito soltanto è un film finito.

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In realtà verrebbe da invertire l’ordine delle cose. Probabilmente le risposte alle domande di un film sono già disseminate tra le pieghe dei precedenti. “Siamo tutti in pericolo”, suggerisce amaramente Pasolini nell’ultima intervista prima di morire, rilasciata (a brandelli) a Furio Colombo. “State attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione. Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato la vita violenta”.

Sì, è vero, “siamo tutti in pericolo”, e uno come Ferrara questo lo sa da sempre. Ma ha già risposto, per bocca di Devereaux: “nessuno vuole essere salvato davvero”. Sì, è vero, come giustamente intuito dall’amico Carlo Valeri, che questo Pasolini pare un film, in fondo, ottimista, Pare concludere “bene” un dannato percorso di autosalvazione, intrapreso da Ferrara a partire da 4:44 Last Day on Earth (grande film, continuo a credere, sulla crisi d’astinenza), ma solo nella misura in cui è intervenuta la consapevolezza di non poter guarire dall’addiction, dalla dipendenza ossessiva dal desiderio, quello che imprigiona Devereaux e, in qualche modo, condanna Pasolini. Acquisita questa coscienza – la volontà di non esser salvati – allora il mondo assomiglia a un inferno tutto sommato ancora vivibile, ancora trasformabile con la volontà (appunto) dell’immaginazione, ancora filmabile. Se Pasolini nelle sue ultime opere (compiute) pare essere il messaggero della Morte, inchiodato e agghiacciato dalla tragedia che osserva, Ferrara cambia (quasi fosse Bellocchio) il senso della Storia, trasformando l’immagine del poeta in un segno di magnifica vitalità.

Già. Ferrara parla di se stesso, girando un film intimo, piccolissimo, aggrappandosi alla figura e alle parole di un personaggio “enorme”. E per questo il momento decisivo è quell’interpolazione, quell’aggiunta all’intervista di Furio Colombo: “Farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O faccio film o mi suicido”… E viene a mente, a memoria, Vincent Gallo in Fratelli: “la vita non sarebbe nulla senza i film”. Girare comunque, non importa con quale mezzo, perché girare è un’urgenza intossicata, l’unico modo che si ha per esprimersi. E non importa che gli altri capiscano. E Ferrara davvero filma come se fosse l’ultimo giorno, con quel che ha (mi permettete di citare Rossellini?), trasformando le evidenti limitazioni materiali in un discorso di senso compiuto e spiazzante, in vortici di densa umanità. Ferrara gira con i resti delle cose, cuce gli spezzoni, i tagli del girato, del montato e della carne. A partire dai brandelli delle opere incompiute di Pasolini, Petrolio, Porno-Teo-Kolossal, per arrivare a quegli squarci di Roma, che sembrano rubati contro ogni autorizzazione, ogni licenza istituzionale, ogni ipotesi di grande bellezza. La cupola di San Paolo, il colosseo quadrato che recita, macabramente, “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”, sprazzi dell’EUR, riflessi di Termini, la desolazione di un’ostia di spiaggia. E tutto diventa altro, la città della notte di King of New York, una sorta di mondo sospeso tra l’incubo e la meraviglia del sogno: lì a Piramide troviamo un’altra città, il regno dei gay e delle lesbiche, pronti a festeggiare con un’orgia il rito della fertilità.

E diviene così centrale la questione della lingua: perché con lucida follia, Ferrara trasforma il limite delle differenze in netta dichiarazione morale, in un’interpretazione politica. Quando gli altri si accostano al Pasolini intellettuale, tutti sono costretti ad adeguarsi alla sua lingua (l’inglese), quando lui scende tra i ragazzi di vita, prova a parlare la loro lingua (l’italiano). E tutti gli interpreti si ritrovano a “disagio”. L’impressione è di uno spaesamento folle, di un’incomprensione generale, di una difficoltà di tempo, di ritmo, di modo. Fino al sommo gioco di Ninetto Davoli che fa Eduardo De Filippo e parla in romanesco e di Scamarcio che fa Davoli e parla in napoletano. Non si capisce più un cazzo, come nel più perfetto dei racconti italo-americani. E Ferrara si aggrappa a questo blackout, filmando l’impossibile.

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Sì, rientra per la porta principale dopo la clandestinità di Welcome to New York, torna in concorso, pare aspirare alla pulizia di un mainstream che, in fondo non ha mai avuto. Ha mai fatto un film “bello” Ferrara? No. Gira, in fondo, un altro film rubato, scippato alle tenebre del caos, del non senso. Avrà sempre l’aria di un fottuto ladro. Che non potrà fare a meno di continuare nella perversione del suo vizio. Con la consapevolezza che un film riuscito è soltanto un film finito.

Ma la fine non esiste. Aspettiamo…

Regia: Abel Ferrara
Interpreti: Willem Dafoe, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande, Maria de Medeiros, Adriana Asti, Valerio Mastandrea, Roberto Zibetti
Origine: Italia, Francia, 2014
Distribuzione: Europictures
Durata: 90′

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