Patti in Florence, di Edoardo Zucchetti

Al Festival dei Popoli 61, un documentario che ripercorre le tappe del lungo amore tra la poetessa del rock e la città di Firenze. Dagli anni ’70 ad oggi, tra palchi in fiamme, radio libere e arte

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Il 10 settembre 1979 ottantamila persone si riversano nello Stadio Comunale di Firenze. È l’inimmaginabile conclusione di una Festa dell’Unità passata alla storia: sul palco Patti Smith. Sono gli anni del reflusso, la fine del carnevale, gli ultimissimi guizzi di quegli «anni di desiderio», come li chiamò Umberto Eco, prima del precipizio degli Ottanta. Pochi mesi prima, a giugno, sulla lunga spiaggia di Castel Porziano, si era celebrato il Festival internazionale dei poeti, promosso dall’allora Assessore alla Cultura Renato Nicolini; festa collettiva, happening, utopia pasticciata, che portò sul litorale laziale i più grandi intellettuali italiani ed i miti della beat generation, poesia alta e flussi di coscienza senza fine. Il chiaro segno che, sebbene verso il tramonto, il fermento creativo era ancora bruciante e l’eredità degli anni passati ben nitida. In questo contesto, sulla scia dei compagni bolognesi che avevano nell’Alice di Carroll il proprio mito, alcuni giovani della sezione fiorentina del PCI fondarono una radio nell’etere libero, Radio Centofiori, nata proprio per offrire una risposta alla crisi politica che si profilava all’orizzonte. Furono loro a portare a Firenze l’epica del grande rock, nel tentativo di porre fine alle continue contestazioni sui prezzi dei biglietti ed ai palchi dati alle fiamme che avevano tenuto lontani dal nostro paese gli artisti internazionali. Grazie a questa «banda di giovani» i più importanti nomi del rock tornarono in Italia. Era la rinascita dei grandi eventi: prima tra tutti, Patti Smith e la sua band, che misero su quella che si suole definire una «grande messa rock and roll». Certo, anche allora non tutto andò liscio e quando la band attaccò Star Spangled Banner ‘osando’ innalzare la bandiera a stelle e strisce c’è chi non fu affatto felice e tentò di arrampicarsi sul palco per rimuoverla. Vessillo della discordia a parte, l’accoglienza della città fu straordinaria e sancì l’inizio di una storia d’amore, quella tra Firenze e la poetessa, destinata a continuare nel tempo; la racconta il giovane regista Edoardo Zucchetti nel documentario Patti In Florence, presentato in apertura della 61esima edizione del Festival dei Popoli.

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Sviluppato sostanzialmente su tre piani temporali il film unisce passato remoto, con quel ’79 che sfiora il mito, passato prossimo, con il tour del 2009 realizzato per celebrare i trent’anni dallo storico concerto – e ribattezzato non a caso When I Was In Florence -, ed infine il presente della realizzazione del documentario, con un terzo passaggio di Patti Smith e la sua band, Lenny Kaye (chitarra) e Jay Dee Daugherty (batteria), nel capoluogo toscano. Un’artista rinascimentale, come il regista la definisce, profondamente a suo agio nella città rinascimentale per antonomasia, ripresa dal regista nel suo vagare per le strade, nella sua apertura costante ai cittadini, così fiera dell’essere busker e di offrirsi genuinamente al pubblico.

È un film abbracciato da un’atmosfera nostalgica – o forse la percezione è falsata dai tempi in cui viviamo… -, nostalgia per i grandi eventi ed i rocamboleschi concerti elettrici, per la pellicola su cui venivano impresse le foto e l’odore di celluloide, per l’epoca delle radio libere ed anche -chissà- dei palchi bruciati. Anche a voler tenere a margine le più facili emozioni da ‘fan’, quel che conta e quel che qui rimane è il ritratto di un’artista che non ha mai ceduto ai cliché dello star system, agli stereotipi della rockstar invecchiata. Edoardo Zucchetti, che ha seguito Patti Smith sin dal 2009, riesce a dipingere un animo profondo quanto la sua voce; una donna innamorata dell’arte e per questo innamorata dell’eterna Firenze, pronta, dopo anni, ad esibirsi sotto gli occhi vigili del David di Michelangelo, immenso nella sua perfetta prestanza fisica, che a guardar bene richiama i corpi fotografati dal sodale compagno di gioventù, Robert Mapplethorpe. Ed ecco che il cerchio si chiude.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2 (5 voti)
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