Paul Schrader, il fuoco e la neve

affliction di paul schrader
Nel cinema di Paul Schrader l'immagine possiede le proprietà di un fuoco da smorzare attraverso il gelido candore di una messa in scena che lo addomestichi fino a spegnerlo. Il fuoco e la neve esistono da sempre nel cinema schraderiano: sono caratteri opposti, che lasciano leggere la sua filmografia come una lunga serie di antinomie. Una lettura del cinema di Paul Schrader, in Italia a Gorizia in occasione del Premio Sergio Amidei all'Opera d'Autore

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afflictionFinalmente un premio a Paul Schrader. Il riconoscimento conferitogli dal Premio Sergio Amidei all'Opera d'Autore va al di là del merito del singolo film o della singola sceneggiatura per concentrarsi sull'artista, una figura che ha scandito, senza tuttavia mai salire veramente alla ribalta, le ultime tre decadi del cinema americano, perseguendo in un contesto volubile come quello dell’industria hollywoodiana la maturazione di uno stile, che nella sua tesi di dottorato poi divenuta libro ha definito ‘trascendentale’.
Su ciò che questa formula ha significato nella formazione dello Schrader critico prima, e sceneggiatore-regista poi, è stato detto tanto. Della fissità dei suoi atti, con una tripartizione netta in quotidianità/scissione/stasi; del suo spinto autobiografismo, che ha portato l’ex calvinista della comunità di Gran Rapids in Michigan avvolto dalle spire del mondo del cinema losangelino a realizzare veri e propri remake della sua vita, dipingendosi – con l’ausilio di John Milius in Hardcore e poi da solo in Patty Hearst – come la giovane Nathalie Wood di Sentieri Selvaggi/The Searchers, figura inglobata in un mondo che la sua famiglia d’origine non può che disprezzare. Così come si è detto tanto dei suoi personaggi, piegati da un atavico senso di colpa, che scontano in un incessante vagare i peccati da espiare. I suoi protagonisti sono dei Sisifo ai quali viene infine concessa la grazia, ma le forme assunte da questa prerogativa del discorso schraderiano sono cambiate nel tempo, giungendo a una modulazione personale che ne ha visto il

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pickpocketprogressivo distacco dalle formule impiegate dai suoi autori di riferimento, Ozu, Bresson e Dreyer. Dopo aver per anni tentato di sottrarre i suoi protagonisti – una volta illuminati da una grazia cui erano predestinati dopo molte sofferenze – allo sguardo materiale dello spettatore, recidendone la storia nell’esatto momento dell’avvenuta presa di coscienza, secondo un modello mutuato dal finale del Pickpocket di Bresson, di cui, ad esempio, American Gigolo è una replica pressoché perfetta, sono la morte (Autofocus) e l’oblio dopo questa (Affliction) le nuove vie del cinema schraderiano verso la trascendenza. Entrambe le pellicole denunciano l’implosione dell’immagine stessa, necessariamente cancellata per poter aspirare al puro mondo delle idee.
Nel cinema di Paul Schrader questa attrazione/repulsione per l’immagine ha un ruolo preponderante. L’immagine ha per lui le proprietà di un fuoco da smorzare con il candore gelido di una messa in scena che lo addomestichi fino a spegnerlo. Questo fuoco e questa neve esistono da sempre nel cinema schraderiano: sono caratteri opposti, che lasciano leggere la sua filmografia come una lunga serie di antinomie, compresa, in primis, quella tra sceneggiatore e autore. Due ruoli antitetici, pronti a darsi battaglia proprio come il fuoco che nel finale di Affliction recide in un attimo l’esistenza di Wade Witheouse e con essa il suo passato, incarnato da un padre sempre, ineluttabilmente padrone. E come la neve che subito dopo ricopre col suo manto indifferente quella stessa tragedia, la sua stessa immagine.
Alla luce delle coordinate che Schrader per primo ha tracciato per una migliore comprensione del suo progetto artistico – non si può che definire in questo modo una carriera sempre lucida, protesa verso un unico fine – l’emblematica sequenza di Affliction dà prova di come nel cinema schraderiano sia sempre vivo questo irrisolto conflitto tra il fuoco e la neve, tra un’incandescenza dei contenuti e una glacialità della messa in scena. Perché come la neve cancella le impronte del passaggio di Wade su questa terra – di lui non si sentirà più parlare, commenta lapidario il fratello narratore – il film amputa l’immagine consegnandola al piano dell’invisibilità, oltre l’immanenza delle cose, del mondo, delle molteplici storie da raccontare.
light sleeperÈ proprio questa neve a essere invece assente negli adattamenti dei testi schraderiani realizzati da Martin Scorsese. Il connubio tra lo sceneggiatore del Michigan e il regista italoamericano ha sempre alimentato il fuoco interiore degli script in virtù di un sontuoso apparato visivo, intriso di un cattolicesimo barocco, che si è imposto come controcanto visivo al calvinismo morigerato dello Schrader regista. Tanta incandescenza ha generato una galleria di memorabili loser, figure decisamente più vivide dei loro simili messi in scena da Schrader. Travis Bickle o Jake La Motta sono, da un punto di vista drammaturgico, dei giganti sulle spalle dei nani Julian Kay (American Gigolo) o il light sleeper John La Tour (Lo spacciatore), che però portano avanti un discorso – arricchito ulteriormente dal Carter Page III del penultimo film, The Walker, che viene a chiudere idealmente la tetralogia Un uomo e la sua stanza – in cui i bagliori della messa in scena non offuscano le variazioni sul tema/ossessione d’autore.
Un premio alla sola attività di sceneggiatore sarebbe suonato dunque beffardo nei confronti del percorso artistico di Schrader, poiché il fuoco sembrerebbe così vincere sull’altro aspetto imprescindibile del suo cinema. Premiarne invece, come si è scelto di fare a Gorizia, l’intera opera significa colmare per un attimo la distanza – la scissione appunto – tra i due elementi, e giungere a una sintesi compiuta del suo discorso poetico.

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