Pechino 2022 – Montagne nere, piste bianche

Cosa ci dicono le immagini provenienti dallo Yanqing, sede delle competizioni di sci alpino delle Olimpiadi Invernali di Pechino 2022, con le sue montagne nere solcate solamente da neve artificiale?

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“[La montagna] trasmette un senso di eternità, soprattutto rispetto al nostro precario orizzonte esistenziale. Lassù le stagioni si impongono, ed esistono ancora. Anzi, il loro ostinato ritorno ci suggerisce che un’eterna giovinezza si nasconde nelle pieghe segrete della nostra coscienza”.

 

 

Rodolphe Cristin in Turismo di massa e usura del mondo.

Guardando le immagini provenienti da Yanqing, sede delle competizioni di sci alpino delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, non è facile farsi trasportare dal quasi metafisico entusiasmo per la montagna che traina uno degli ultimi capitoli dello splendido saggio di Cristin. Di fronte alle immagini delle nere montagne cinesi sporcate di bianco soltanto in corrispondenza delle piste difficilmente possono farsi metafora dell’imposizione delle stagioni e, con esse, dell’ordine naturale delle cose. Siamo di fronte, semmai, all’esatto contrario: il trionfo dell’umano e della sua onnipotenza. A Yanqing cadono mediamente solo 21 cm di neve all’anno? Non c’è problema, se si hanno cannoni che sparano ininterrottamente da novembre neve artificiale che si scioglierà molto più lentamente grazie ad appositi additivi.

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Non siamo più di fronte all’asprezza della montagna come incontro con il radicalmente Altro da noi. Ora, il monte che blocca fatalmente la luce del sole non è più un ostacolo insormontabile per l’uomo che vive ai suoi piedi. Ora, il monte può tranquillamente essere spostato, bucato, eliminato. Una volta emblema del sublime della natura, della sfida brutale e quotidiana dell’uomo, la montagna è ora solo l’ultimo nella lista dei parchi giochi. È quello che emerge da prodotti come 14 vette, se si riesce ad andare oltre allo strillato intento pubblicitario del documentario targato Netflix. Non c’è alcun tipo di poesia nella scalata in meno di sette mesi delle 14 vette più alte del mondo da parte del nepalese Nirmal Purja. D’altronde, ce la si potrebbe aspettare di fronte a una coda di persone degna di un supermercato in tempo pandemico per arrivare sulla vetta dell’Everest per il selfie da affiancare all’hashtag?

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Limitare questo discorso alla montagna sarebbe, però, riduttivo. Nulla sembra essere immune all’erosione dell’idea di immacolato, il cui unico riparo rimasto sembrerebbe risiedere nell’immaginario. Anche lì, però, le pareti cominciano a creparsi, facendo penetrare la consapevolezza che non esista più niente e nessuno che possa dirsi incontaminato. Anzi, oggi ci sono luoghi che non esistono al di là della loro contaminazione umana, tanto che per molti siamo entrati in una nuova epoca, nella quale l’essere umano è un elemento geologico, al pari di un’eruzione o di un terremoto. Seguendo quest’idea, le immagini di Antropocene di Burtynsky-Baichwal-de Pencier ci portano in mega-discariche nigeriane, lande desertiche cilene pezzate da pozze di litio fino alle colline di Carrara fatte a pezzi per il marmo. Estremi, questi, in cui è più facile da scrutare il paradosso di un’umanità che all’apice del suo assolutismo perde un qualcosa di fondamentale, piuttosto che in un qualsiasi luogo turistico come una pista da sci.

Le piste bianche di Yanqing, allora, sono l’ultima negazione di un concetto di fuori, di Altro dal cui confronto l’umanità distilla il suo innato carico di irrequietezza. “Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera”, così Blaise Pascal racchiudeva in una frase questa carica segreta, questa irresistibile spinta al movimento dell’essere umano. Una tendenza alla quale l’attuale epoca globale sembrerebbe allinearsi: l’individuo di successo, come visto dalla grande maggioranza della società, è un soggetto sradicato, che si sposta da un punto all’altro alla continua ricerca di profitto. E se per questi individui il tempo è denaro, i momenti morti diventano la prima perdita. È una mobilità che, nella sua immediatezza e artificialità, cerca di sostituirsi a un’esperienza ben più profonda nella quale si risolveva questa santa irrequietezza: il viaggio.

Il viaggio è un qualcosa che va oltre la rottura del ritmo quotidiano e lo spaesamento seducente dell’esotico. È più che semplice mobilità. È il sogno di un uomo universale, che “si fonda su un radicamento dinamico che gli permette di riconoscersi ovunque”, riprendendo Cristin. È l’inascoltata paura di abbandonare il conosciuto e di perdersi, di abbracciare lo sconosciuto e l’inutile, la pausa e la fatica. È un affronto al conformismo con il quale nessuna neve artificiale o volo intercontinentale a basso costo potrà mai competere. Tanto che, spesso, la mattonella fuori dalla porta di casa è la prima delle sconosciute. Di fronte alle montagne nere di Yanqing, allora, viene voglia di prende lo zaino in spalla e partire, ripetendo come un mantra la miglior frase con la quale Werner Herzog avrebbe mai potuto omaggiare uno degli che più di tutti si è vestito del mondo che percorreva, Bruce Chatwin: “Il mondo rivela sé stesso a coloro che viaggiano a piedi”.

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