Pedro, di Natesh Hegde
Vincitore del premio per la “miglior regia” alla quinta edizione del festival di Pingyao, Pedro mette in scena la storia di un uomo alle prese con le conseguenze di un intollerabile atto sacrilego
Cosa comporta compiere un atto sacrilego? Quali sono le conseguenze per chi, come il protagonista del film, si macchia del “crimine” più vituperato agli occhi di un’intera comunità? E fino a quale punto è giusto, sul piano meramente etico e morale, che quel medesimo uomo accetti la pena idealmente comminata, subendone le ripercussioni sul proprio corpo e sulla propria esistenza?
Questa sequela di interrogativi costituiscono il fulcro centrale attorno a cui ruota la narrazione di Pedro (di Natesh Hegde, vincitore del premio alla miglior regia alla quinta edizione del festival di Pingyao) il cui omonimo protagonista è un outcast, un uomo indiano di mezza età emarginato e relegato ai margini della comunità a cui appartiene (in un villaggio forestale nel Sud dell’India) che diviene oggetto di una ulteriore azione di estromissione comunitaria nel momento in cui si macchia di un atto intollerabile: al posto di uccidere un cinghiale (compito ingrato assegnatogli dai suoi conterranei) colpisce mortalmente una mucca, l’animale più sacro agli occhi dei contadini del luogo. Da questo punto in poi l’uomo, macchiatosi di hybris, del gesto più blasfemo e irrisorio nei confronti delle divinità autoctone, deve “necessariamente” accettare, per la comunità, le conseguenze di quell’atto sacrilego (e quindi sacrificare la propria esistenza).
Nella veicolazione di tali tematiche Hegde adotta acutamente uno sguardo contemplativo (l’opera si iscrive organicamente nel filone dello slow cinema contemporaneo, dominata da ritmi compassati, da inquadrature in continuità con movimenti di camera parziali, con una narrazione character-driven, cioè interamente filtrata dallo sguardo e dal mondo interiore del personaggio, e non plot-driven, ovvero trainata dagli eventi narrativi) tanto che il film richiama, sia per l’ambientazione scenografica (il luogo forestale dominante gli ambienti esterni, contrappuntato dalle luci al neon purpuree degli interni) sia per la grammatica filmica (piani-sequenza) il cinema di Bi Gan (uno degli esponenti dello slow cinema più recente affermatosi con Kaili Blues del 2015 e Un lungo viaggio nella notte del 2018).
Per quanto Hegde, con il suo debutto, riesca ad articolare una narrazione che ponga in essere quelle enigmatiche domande iniziali, donandole anche un certo rilievo narrativo, nel prosieguo del racconto non sembra più essere in grado di affrontarle con una spinta adeguatamente propulsiva. Nel terzo atto, infatti, nel momento in cui ci si aspetterebbe una reazione da parte del protagonista (dopo aver subito l’onda degli eventi nei precedenti due atti) egli perde improvvisamente la sua centralità, decretando un epilogo meno tagliente e incisivo rispetto al resto della narrazione, con il linguaggio filmico che non è in grado di offrire quel quid in più riscontrabile, ad esempio, nelle inquadrature in continuità di Bi Gan (il film è privo di quei virtuosismi, così come degli effetti ipnotici a cui si prestano).
Se consideriamo, però, le modalità con cui il film dispiega il proprio mondo diegetico, con tutte le sue regole intra-narrative, ecco che l’opera risulta egregia, dimostrandosi “meritevole” di appartenere al quel ristretto numero di lungometraggi premiati a Pingyao, tra cui figurano anche Feathers (di El Zohairy, vincitore del premio “Rossellini” per il miglior film), Journey to the West (di Kong Dashan, premio “Fei Mu” per il miglior film cinese), Venus By Water (di Wang Lin, premio della giuria) e The Kiss about Father (di Guo Zhirong, premio “Tong Ye” per il miglior film locale).
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani