"Peeping David"

David Hemmings, morto per un infarto a sessantadue anni, ha sempre lavorato ad una sostanziale riduzione ontologica del proprio essere attore, un denudamento forse, sempre innescato da un'astrazione in piena regola.

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Profondo rosso non è il capolavoro di Dario Argento, è forse il suo film più bello, ma non il suo capo d'opera. L'opinione è assolutamente personale, dunque da prendere con le pinze, ma di fronte ai deliri di Inferno e forse ancor di più ai vaneggiamenti totalizzanti di una macchina da presa che reinventa il linguaggio del cinema in La sindrome di Stendhal, c'è poco da fare, la narrazione è morta, sostituita da un qualcosa che va follemente oltre. Bene, detto questo aggiungiamo che però Profondo rosso rappresenta uno scarto, o meglio ancora una transizione nel cinema italiano (e non solo) di quegli anni, per il suo (ir)razionalizzare la lezione antonioniana dello spazio improvvisamente vuoto e in realtà pieno di oggetti parlanti, di movenze liquide che non sono ancora presenza, ma appunto una loro esitante e inquieta copia. L'occhio fa fatica a vedere e anche quando centra il mirino sul presunto oggetto dello sguardo, non può fare a meno di essere intermittente, singhiozzante, per certi versi miope. Guardare allora come mancare lo sguardo, filmando uno scacco, una sovrapposizione di piani, un necessario vuoto. Nel momento in cui David Hemmings entra nell'appartamento da cui provenivano urla, teatro infatti dell'omicidio che dà avvio ad una racconto ancora ipotizzabile, vede un quadro che non c'è, o meglio, guarda, non vedendo, sopraffatto da una corridoio che procede, spinto da una m.d.p insinuante, condannato infine a scambiare la visione infinitesimale di un volto per una forma cromatica mai data. Sembrerebbe teorica la questione, ma è più di tutto un calembour ottico calato in un godimento troppo spinto per essere soltanto teorico. David Hemmings è il regista di se stesso che manca improvvisamente la propria identità, filmando un vuoto esorcizzabile soltanto alla fine, attraverso la memoria, il ricordo, la folgorazione improvvisa. Non è nemmeno più attore. E' lo stesso Argento specchiato nel riflesso di un ossessione che lo ha contagiato, fino a fargli cambiare movenza, aspetto, intenzione. Per il resto l'attore inglese è un grandissimo zombie della durata che non fa altro che restare chiuso in quel corridoio per due ore di durata del film, non rinunciando ad immaginare l'esterno, la divagazione, il rapporto con la Nicolodi e tutto il resto. In questo senso Argento mette in scena un corpo che ha appena un nome, una presunta attività (quella del musicista), che si rivelano dati accessori, fittizi, diciamo pure fasulli. Pretesti allora perché Hemmings è il nameless della situazione, il deus ex machina che non interviene a diradare le nebbie della prospettiva, ma a complicarle, semplicemente perché non vede. Al massimo può essere visto (la Calamai che lo fissa nelle sequenza descritta), provocato (dalla Nicolodi che lo trascina in giochi di seduzione e buffoneria rispetto ai quali resta comunque imperturbabile) e a ancor di più giocato (dallo stesso Argento) che ne filma la progressiva rarefazione.

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Già, ma chi era David Hemmings, morto all'età di sessantadue anni mentre si trovava a Bucarest sul set di Colour me Stanley Kubrick ? Era un attore (prima chiaramente di passare attraverso il trattamento di Antonioni prima e di Argento poi), ma prima ancora un soprano. Nato infatti a Guilford (Gran Bretagna) nel 1941, il giovane David si mise subito in mostra per le sue indubbie doti vocali che lo fecero segnalare ad importanti musicisti con i quali collaborò per qualche tempo. Poi, il cinema, non prima di un bel po' di teatro. L'inizio allora con Blow Up di Michelangelo Antonioni e il successivo lancio in tutte le platee del mondo. Il discorso non è troppo dissimile da quello fatto sul film di Argento, con qualche differenza però. Antonioni non possiede la leggerezza teorica di Argento, il suo sguardo per certi versi però anticipa il discorso del cinema sul cinema che sarebbe poi venuto e infine ha il grande merito di scoprire in Hemmings delle potenzialità non indifferenti. Antonioni non lo vede tanto come un attore, ma proprio come un automa, modello paradigmatico di indifferenza, straniamento, distacco, e lo fa muovere nella swinging London degli anni Sessanta con l'aria di chi si trova lì per caso, destinato in un certo senso a subirla l'azione più che a produrla. Non è allora un caso che Hemmings faccia del sesso freddo e coloratissimo con delle modelle capitate nel suo studio di fotografo (dunque per certi versi non casualmente), che si rechi poi in un parco con la sua inseparabile macchina fotografica scattando foto alla natura e a due giovani amanti colti in intimità, per poi svilupparle e accorgersi della presenza di un cadavere indisturbato e non visto in un cespuglio. E' allora l'azione subita ad aprire nuovi orizzonti sul reale, a spalancare finestre che danno su vicoli poco illuminati e al tempo stesso frequentatissimi da corpi, ombre, movimenti. Hemmings allora incarna da un lato la compostezza british dell'atteggiamento, la misura della presenza, lavorando però contemporaneamente ad una sostanziale riduzione ontologica del proprio essere, un denudamento forse, sempre innescato da un'astrazione in piena regola che sveste la realtà di ogni contorno definito. Si può recitare la dialettica delle parti azionando il cinema all'interno di un'impostazione teatrale (la teatralità di buona parte del cinema inglese degli anni Cinquanta e Sessanta, prima ancora dell'irruzione del Free Cinema), ma si può anche praticare il vuoto, inventando dal niente presupposti dell'azione, movente e via dicendo. Ecco, Antonioni ha allestito per l'attore inglese uno spazio ripetitivo e claustrofobico (dalla camera oscura, allo studio, in un cortocircuito di forme che si replicano senza sosta) che Hemmings ha coperto immaginando un'azione (che di fatto non c'è), in un tempo mai dato per intero (appunto perchè oscillante tra quello fisso della foto e quello mutante della visione della stessa). A differenza di Profondo Rosso qui ha una macchina fotografica che porta sempre con s'è (vicino/lontano rispetto alla perversione abitudinaria del protagonista di L'occhio che uccide di Powell), come a sopperire in una certa misura al deficit oculare di un occhio che non risponde più come dovrebbe. Dopo quest'incursione immaginaria in un reale lontano da ogni tipo di approssimazione, Hemmings comincia la sua carriera vera e propria, alternando cinema e televisione con una continuità impressionante. Per il cinema da registrare vi è il grande successo degli anni Sessanta di Roger Vadim, Barbarella, ma anche il bel Frammenti di paura (1970) di Richard C. Sarafian, in cui Hemmings, a perfetto agio in un giallo assolutamente anomalo, rivive i panni di uno scrittore che indaga sulla morte violenta della zia. Il suo personaggio vive continuamente in trasferta (arriva addirittura a recarsi a Pompei) ed ha un ritmo interno che percorre regolarmente il corso degli eventi, specialmente poi a contatto con una messinscena quasi spettrale. Anche Il racket dei sequestri (diretto da Micheal Apted) non è niente male, specialmente poi quando Hemmings si trova a convivere con l'altra parte di sé incline alla violenza. Di tutt'altro tenore invece il divertentissimo Squadra antitruffa (del grande e sottovalutato Bruno Corbucci) che Hemmings interpretò a fine anni Settanta con lo scatenato Tomas Milian. I duetti tra loro due sono assolutamente irresistibili, così come l'abbigliamento tipicamente inglese di Hemmings trascinato in un bailamme di situazioni vicine ad una farsa sregolata e vitalissima.

Ma quello di Hemmings, come già osservato, è un contino presentarsi/assentarsi dalla scena, con delle pause sapienti e al tempo stesso incredibili (quelle ad esempio che dosa magistralmente nell'interpretazione della spia inglese de L'abbraccio dell'orso) che ne sanciscono una sorta di continua estraneità ai ritmi esterni della scena. Accanto allora ai film interpretati, non possiamo non citare alcuni di quelli diretti, fra i quali il bellissimo Gigolò del 1979 (peraltro la sua unica opera distribuita in Italia), con un David Bowie che, reduce dalla prima guerra mondiale, si trasforma in un perenne oggetto del desiderio per omosessuali e donne ricche. Hemmings dilania subito il pretesto di genere, peraltro vacillante e precario, per spostare la focalizzazione del suo occhio sui rapporti tra sessi, sulle dinamiche di potere presenti all'interno di una società fatiscente, anticipando di fatto (ma nessuno sembra averlo mai notato) il discorso sul potere sessuale esplicitato da Oshima nel suo Furyo (interpretato non a caso dallo stesso Bowie). Ancora più grande, se possibile, Survivor (di appena due anni dopo), opera da recuperare assolutamente in qualche canale secondario, in cui il regista anticipa di fatto il discorso del cinema americano di fine Novecento e inizio 2000 sulla labilità del corpo e le sovrimpressioni continue attraverso le quali leggere il tono della presenza (ci riferiamo specialmente al cinema di Shyamalan) e quello del trascendimento di questa in un orizzonte quasi metafisico, incarnato appieno da un grande Robert Powell (il Gesù zeffirelliano, nonché il Dannunzio di Nasca). Così il cinema di Hemmings (quello diretto) non fa altro che continuare in modo coerente il discorso portato avanti nella recitazione, con un modo oltremodo fisico e al tempo stesso lunare di guardare al corpo, all'azione, al tempo di quest'ultima. Non solo cinema comunque, come prima anticipato. Hemmings infatti ha lavorato moltissimo in televisione in cui ha diretto anche un episodio di Magnum P.I, nonché il film televisivo sul romanzo di Ken Follett, Codice Rebecca, e poi serie televisive (Hardball, In the heat of night, Dark Horse). Negli ultimi anni si è visto in opere in cui era apparso molto cambiato nel fisico (ne Il Gladiatore di Scott è praticamente irriconoscibile), tra le quali Gangs of New York e il recentissimo La leggenda degli uomini straordinari. Tutte opere in cui Hemmings continua a rincorrere il moto frenetico di una pallina da tennis inesistente, immaginata durante tutta una carriera.

 


LINK


Allocine.com (Francia)


David Hemmings – Brit Boy of the 60's, a fan tribute


filmtagebuch obituary (Germania)


MSN Entertainment

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