Penguin Bloom, di Glendyn Ivin

Un altro ruolo tenace ed emotivo per Naomi Watts in Penguin Bloom in un film che non aggiunge molto all’oggettivo racconto della storia vera dove molte azioni sono dimenticabili

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Nonostante negli ultimi anni sia rinchiusa in ruoli da madre e moglie, Naomi Watts è da sempre affezionata alle performance di donne fuori dagli schemi, continuando a deliziare col suo fascino di diva dal volto umano. Sempre credibile e sempre audace, soprattutto nelle situazioni in cui il suo personaggio prova a rimettersi in piedi, e la sua anima riflette le persone fragili, inferme e spezzate, diventando la luce dei film che interpreta e dando spessore anche a sceneggiature o regie quando deboli; come nel caso di Penguin Bloom, storia biografica tratta dall’omonimo libro di Cameron Bloom e Bradley Trevor Greive e che arriva al cinema direttamente dal TIFF 2020, dove l’attrice si ritrova ancora una volta fautrice di una potente interpretazione, ancora nel ruolo di madre, alle prese con una situazione insormontabile.
Un percorso che sembra essere iniziato con il famoso 21 grammi, arrivando a oggi con 3 Generations – Una famiglia quasi perfetta e a Il libro di Henry; da Two Mothers a Il castello di vetro, da Giovani si diventa a The Impossible.

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Ancora una volta affronta il film a testa alta, dando grande dignità al suo personaggio, non scadendo in eccessi emotivi forzati; è questa però una performance che non riesce a distinguersi, non aggiungendo nulla alle precedenti.

Sam Bloom è un’atletica surfista, sposata e madre di tre figli, che a causa di un incidente imprevedibile cade da una terrazza mentre si trova in vacanza in Thailandia con tutta la famiglia. Costretta su sedia a rotelle a causa della rottura della spina dorsale, che la rende paralizzata dalla vita in giù, non riesce ad accettare la sua nuova condizione, che le impedisce di essere la persona attiva e sportiva che era prima. Quando un uccello selvatico non più capace di volare – una gazza bianca e nera che ricorda le fattezze di un pinguino, da qui il nome Penguin – arriva, sempre casualmente, nella loro casa, la sua voglia di (non) reagire inizia a intaccarsi, facendo riemergere quella forza che credeva di aver perduto. Penguin Bloom diventa così un membro ufficiale della famiglia.

Gli sguardi che raccontano la vicenda sono, in un certo senso, tre: quello di Sam, quello del figlio più grande – voce fuori campo che recita il libro biografico del padre – e, a suo modo, quello di Penguin; un uccello selvatico che non sa ancora volare diventa amico di una donna che non può più camminare e che non sa come vivere (e se vivere). Ne risulta una connessione per certi versi devastante: lei appare simile per impotenza a ogni essere sulla terra, che sia umano o animale. Nonostante l’essere umani comporti una certa sicurezza, si è comunque inermi di fronte alla casualità della vita. Un racconto che vive in mezzo alla natura, tra le scogliere australiane e l’oceano, il fiume e il bosco, ma che fa anche mistificazione di quella realtà sul legame uomo-natura che dovrebbe essere molto più dolorosa.

La casualità della vita è una delle tematiche della storia, ma passa però in secondo piano, venendo accantonata per far spazio a quella più importante sul riprendersi, sull’imparare a vivere dopo una tragedia. Un peccato, poiché se trattate di pari passo, il film sarebbe potuto andare oltre rispetto al semplice racconto di una storia vera – un racconto biografico che ha comunque dell’assurdo, data la realtà di questo rapporto unico con un animale selvatico ferito, che diventa parte integrante della famiglia e l’aiuta davvero a “volare”.
Stesso dispiacere per la parte onirica, accennata per non essere mai portata avanti, venendo trattata con superficialità, quando sarebbe potuto essere il mezzo perfetto per imparare a conoscere Sam, la sua interiorità, la sua rabbia, chi era e chi è diventata. Manca quella chiave cinematografica che avrebbe reso l’esperienza della protagonista più forte, più incisiva visivamente. Non viene mostrata la potenza di quel suo desiderio di non vivere più. Il pubblico deve aspettare che lei parli e racconti per sapere davvero cosa prova, nonostante tutto l’impegno della Watts, il cui volto, seppur immobile, sa sprigionarsi.

Tradita dalla vita stessa e da quella casualità, non riesce a trovare un mondo in cui rifugiarsi, il suo sguardo sempre perso nella ricerca di un mistero, di una verità. Il film di Glendyn Ivin, Palma d’oro a Cannes 2003 per il corto Cracker Bag, inizia e finisce proprio qui: alla performance della sua protagonista. Una storia unica se presa nel reale, ma che al cinema si rivela comune; motivo per cui avrebbe meritato di essere caratterizzata con maggior forza e originalità, sia di racconto che visiva, di regia.

Molto lontano da film come Un sapore di ruggine e ossa, in cui il messaggio sul superamento dei limiti e sulle possibilità di migliorare sé stessi attraverso le tragedie si sente sulla pelle. Audiard infatti  ha saputo rendere al meglio l’immagine come sostituto alla parola, rendendo ogni scena ricca di poesia, cercando di mostrare la luce anche attraverso il brutale e lo sporco. Al contrario, in Penguin Bloom è difficile avvertire la bruttezza di quella condizione, sfogata solo attraverso piccole azioni quasi dimenticabili.

Come diceva qualcuno, “il diavolo si nasconde nei dettagli“: queste piccole azioni sono infatti i momenti più interessanti del film. L’opera ci prova, anche attraverso la sua bellissima fotografia, a catturare quella speciale luce del mondo, che miscela l’uomo e quella natura selvatica come un tutt’uno, che dovrebbe bastare, che dovrebbe essere sufficiente a trovare la forza di rialzarsi; ma alla fine diventa più che altro solo una cornice emozionale.

 

 

Titolo originale: id
Regista: Glendyn Ivin
Interpreti: Naomi Watts, Andrew Lincoln, Griffin Murray-Johnston, Essi Murray-Johnston, Felix Cameron, Abe Clifford-Barr
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 95′
Origine: USA, Australia, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
Sending
Il voto dei lettori
2.33 (3 voti)
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