“Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio”, di Pedro Almodóvar

pepi luci bom e le altre ragazze del mucchio
Umorismo scatologico, linguaggio sboccato, un’esilarante scena di fellatio e una molto esplicita di pissing. Eppure l’esordio di Pedro Almodóvar riesce a non essere mai volgare. Un’inedita grazia camp tiene insieme le gag e fa perdonare la frammentarietà del copione, riflettendo malinconicamente lo spaesamento della movida femminista e post-franchista, e offrendo spunti di riflessione che vanno al di là del mero bozzetto bohémien.
Arezzo, mercoledì 2 marzo ore 21.15 cinema Eden. Rassegna Lost&Found, a cura di Cineforum 2 e Sentieri selvaggi

 

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pepi luci e bom e le altre ragazze del mucchioTitoli di testa. I disegni dai colori accesi introducono una tragressività che non si prende sul serio, ma è tutta all’insegna di una miscela “sesso, droga e rock’n’roll” grottesca e fumettistica. Sono passati cinque anni dallo strepitoso successo di The Rocky Horror Picture Show, e nel film di Almodóvar, già dai primissimi minuti, sembra di respirare un’atmosfera simile: complice la voce femminile, stridula e leziosa, che ricorda quella di Columbia nel cult di Jim Sharman. Chiaramente il film spagnolo non ha i mezzi e non possiede ancora la maturità stilistica per competere con il suo antenato britannico. Eppure, in qualche modo, racchiude perfettamente l’umore di un’epoca, precorrendola e rappresentandola allo stesso tempo.
Girato in 16 mm e gonfiato a 35 per le sale commerciali, Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio viene considerato l’esordio di Almodóvar non perché sia la sua prima opera (il regista aveva già realizzato due piccoli film), ma perché rappresenta l’uscita dagli scantinati dell’underground e il debutto nel cinema cosiddetto ufficiale.
La trama è molto esile e sfacciatamente sconclusionata. Pepi (Carmen Maura) è una pseudoscrittrice di racconti che, nel loro impianto assurdo, richiamano con intento metacinematografico il film stesso. Un giorno viene minacciata da un poliziotto maschilista e prepotente, che accetta di non denunciarla per la coltivazione di pianticelle di marijuana in cambio di un rapporto sessuale. Lei gli propone di essere sodomizzata, ma il poliziotto preferisce un amplesso convenzionale e «faccia a faccia». Così Pepi decide di vendicarsi. Prima chiede ai suoi amici rockettari di bastonare il poliziotto: ma quelli si sbagliano, e pestano il suo fratello gemello. Poi chiede all’amica lesbo-punk Bom di sedurre sua moglie, e questa, del tutto inaspettatamente, si rivela una masochista che non pone nessun limite al desiderio di soffrire.
In nuce troviamo molte tematiche care ad Almodóvar. Il tema del doppio viene qui rappresentato alla lettera con i due gemelli, ma è ancora scevro dalle connotazioni metaforiche che assumerà in opere più mature. Con la stessa scanzonata leggerezza viene affrontata l’omosessualità: qui intesa come pura trasgressione, in antitesi con la morale borghese altrettanto macchiettistica. Si è lontani dal rigurgito di rabbia e orgoglio con cui Agrado rivendicherà la propria natura transgender, nel capolavoro Tutto su mia madre. Più che attorno all’omosessualità, infatti, Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio ruota attorno alle perversioni sessuali: nella scena più esplicita e scandalosa, Bom urina in faccia a Luci, visibilmente eccitata. Il trash viene sdoganato, e diventa colore. Come negli spot demenziali delle mutande “Ponte”, che si rivelano preziose per qualsiasi circostanza imprevista.
La cifra almodovariana emerge soprattutto dal gusto kitsch che imbeve le decorazioni degli interni, l’abbigliamento dei personaggi femminili, l’esubero dei nonsense nei dialoghi, che quasi richiamano il Teatro dell’Assurdo. L’impianto teatrale è evidente, del resto, anche nella staticità delle gag e nella netta preponderanza degli interni rispetto agli esterni: Madrid viene solo indovinata in scorci piuttosto impersonali, come il cavalcavia su cui scherzano Pepi e Bom nella scena finale.
In sintonia con la scenografia kitsch, i personaggi sono macchie di colore. Non esistono buoni e cattivi, ma trasgressivi e repressi, e l’evoluzione dei repressi consiste nel diventare trasgressivi. Quasi un happy end che non ha nulla di fiabesco, in un’“anti-fiaba” che di conosciuto conserva solo la scansione in capitoli, grazie a titoletti ironici che inframmezzano situazioni decisamente scabrose per l’epoca. È singolare che in un quadro simile – dove il personaggio più puro si rivela il più perverso – la nudità non venga mai rivelata e l’eroina sia etero, attraente e, rispetto ai suoi amici, meno disinibita. Forse persino Almodóvar non voleva infrangere tutti i tabù, e preferiva che l’identificazione del pubblico fosse veicolata da un personaggio che trattenesse in sé qualcosa di convenzionale.
Quasi una pruderie dell’osceno, verrebbe da dire. Che non inficia l’originalità del film, ma in qualche modo ridimensiona gli eccessi. Perché, nonostante l’umorismo scatologico, il film di Almodóvar riesce a non essere mai volgare. Un’inedita grazia camp tiene insieme le gag e fa perdonare la frammentarietà del copione, riflettendo malinconicamente lo spaesamento della movida femminista e post-franchista, e offrendo spunti di riflessione che vanno al di là del mero bozzetto bohémien.

 

 

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    Un commento

    • insieme a "cosa ho fatto io per meritare questo" un Almodóvar terapeutico quando sentiamo che la nostra vita e soprattutto le nostre relazioni sono troppo complicate 🙂