"Per capire gli attori, meglio un campo di basket che il palcoscenico". Incontro con Davide Ferrario.

A Berlino, “Dopo Mezzanotte” (il nuovo film dell'autore lombardo) ha conquistato la critica che lo ha premiato con il "Caligari Film Prize 2004".

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Sono passati alcuni anni dal tuo ultimo film. Con questa storia sei tornato sulle tue passioni di sempre: Torino e il cinema…

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Non giravo un lungometraggio dal 1999, in parte perchè mi sono occupato di documentari, in parte perchè nessuno era interessato a finanziare i film che volevo fare. Sicuramente il fatto che io viva a Torino e l'amore che ho per il cinema, mi hanno spinto a fare questo film. Non sono delle passioni a priori. Sono le cose da cui sono partito per raccontare questa storia. La Mole Antonelliana ci ha fornito tutte le risposte perchè è un posto suggestivo, è Torino nella maniera più pregnante ed è ora anche la nuova sede del museo del cinema.


 


Che rapporto hai con il "sistema" cinematografico italiano?


Sono sempre stato un regista indipendente, ma non ho mai pensato che questo significasse non avere rapporti con il sistema. Però la situazione produttiva italiana si è molto standardizzata ed è sempre più difficile fare un film "diverso". Dove "diverso" non significa impopolare, anzi… Ma è ormai un fatto che ci sia una rigidità strutturale del sistema, a pensare film che non quadrino con certi schemi produttivi. Il cinema italiano è storicamente imprigionato nel neorealismo e nel fellinismo. Non mi riconosco in nessuno dei due "blocchi". Qui mi sono fidato dell'intuito e della voglia di raccontare.


 


E i finanziamenti ministeriali?


Sul finanziamento al cinema ci sono molte ambiguità. Se è vero che in Italia si fanno troppi film, dobbiamo pure fare i conti con il duopolio: per arrivare in sala bisogna passare o da Medusa o dalla Rai e questo vale anche per i distributori indipendenti. Non esiste varietà di soggetti. Il mio film non aveva sceneggiatura, le commissioni ministeriali me lo avrebbero tirato dietro. La verità è che sono veramente pochi i film in grado di riuscire a catturare l'attenzione di tutto il pubblico. Cinque, all'interno di una stagione, riescono nell'intento, mentre gli altri rischiano di gravitare in un limbo d'invisibilità. Un problema creato anche dall'assenza di un vero e proprio mercato.

Le ristrettezze economiche quanto hanno condizionato il tuo film?


Come dice il film stesso: "Forse sono i luoghi che raccontano le storie meglio dei personaggi". Credo nella capacità narrativa che ha il cinema. Il suo essere progetto e macchina creativa in grado, all'inizio, di coinvolgere al massimo cinquanta persone per poi raggiungere le sale e riuscire a parlare alla molteplicità di un pubblico. La verità è che innanzi tutto avevo bisogno di fare cinema, di sentirmi vivo sul set. Non è un caso che il film parli di cinema e d'amore. In più, mi piaceva l'idea di lavorare con una piccola troupe motivata, mi piaceva girare a Torino. E volevo lavorare anche con attori giovani e poco noti. Insomma, ogni tanto uno ha bisogno di ritornare alle radici. Fin dall'inizio non avevo in mano una vera e propria sceneggiatura. Quello che ho proposto di visionare ai ragazzi, quando sono iniziati i nostri incontri, era un canovaccio di venti pagine nelle quali avevo sintetizzato le fasi essenziali della vicenda. I dialoghi erano del tutto assenti e sono nati giorno per giorno, sulla base non solo dei suggerimenti artistici e tecnici degli attori ma, particolarmente, sul loro modo di essere. Quando lavoro con gli attori non è che ho già in mente precisamente ciò che loro devono incarnare. Voglio essere sorpreso tirando fuori quello che non ti aspetti. Ecco perchè preferisco il campo di basket al palcoscenico…


 


Martino è uno dei protagonisti della storia: chi è in realtà?


Credo che il personaggio di Martino sia in parte autobiografico. É il custode notturno della Mole e vive immerso tra le pellicole che hanno fatto la storia del cinema. Non è un vero proprio cinefilo ma ha una grande passione per il cinema come "cosa", come strumento per riprendere e proiettare la realtà. E non è un caso che Dopo Mezzanotte sia ispirato e citi Buster Keaton, il comico meno sentimentale e più "materialista" della storia del cinema. Ma Martino rappresenta anche l'altro aspetto importante del film: l'amore come lo intendeva Fassbinder e cioè come il bisogno di appartenere a qualcuno o a qualcosa. Un ideale, una fede, un posto.


 


Hai utilizzato diverse citazioni importanti: perchè?


Voglio precisare che non mi piacciono i giochi di citazioni per pochi. Il cinema è una forma di comunicazione. Si dà sempre troppa importanza agli autori e poca ai film. Sono evidenti i rimandi oltre che a Keaton anche al melodramma sentimentale di Jules et Jim. Questo non mi disturba minimamente, ma ciò di cui ho timore è che il mio film sia etichettato come un'opera sui e per i giovani. Io non credo nelle categorie generazionali ma solo nel fatto che ci sono degli esseri umani di vent'anni.


 


Da Guardami a Dopo Mezzanotte, lo stile è cambiato?


Non mi è mai interessato quel tipo di coerenza, quella di chi fa sempre lo stesso tipo di film. Anche da Guardami a Figli di Annibale o Tutti giù per terra si potrebbero riscontrare evidenti differenze di racconto. Ma il fatto che Dopo Mezzanotte sia una commedia deve molto a una certa situazione morale in cui mi sono trovato. Nel tempo trascorso da Guardami ho fatto documentari su Pasolini, sulla Bosnia, sul G8 di Genova. Per tre anni ho organizzato un seminario audiovisivo con i detenuti di San Vittore. Ho lavorato con Marco Paolini, prima in teatro e poi dirigendo la serie di monologhi di Report. Insomma, raccontare una storia lieve, ancorchè non leggera, era un bisogno inconfessato ma fortissimo. Volevo un film che fosse piacevole da fare e da vedere. E comunque, pagavo io…

Anche la musica che utilizzi ha subito un passaggio sonoro non indifferente…


È vero, sono passato da Marlene Kuntz e i CSI a cose più etnico popolari come Daniele Sepe e la Banda Ionica di Roy Paci. Questo film, infatti, è la prima esperienza di assenza di musica non elettrificata, una tabula rasa non elettrificata, direbbe Giovanni Lindo Ferretti. Però c'è da dire che io ho sempre avuto una passione per le bande e già circa dieci anni fa ho usato in Anime fiammeggianti un pezzo di una banda balcanica. Le marce funebri del film sono deliziosamente assurde perchè nonostante la tristezza di fondo hanno dentro strutture liriche che rimandano ai temi di Nino Rota.


 


Lavorare con il digitale quanto ti ha gratificato?


La mia è stata un'esperienza bellissima. Anche se riconosco che il mezzo ha ancora dei limiti. Devi avere la storia e il progetto giusto, non è che tutti i film siano fatti per il digitale. Girare in alta definizione, grazie a Dante Cecchin, è stata sicuramente un'esperienza positiva sotto diversi aspetti. Innanzi tutto mi ha permesso di portare a termine il mio film con un budget assai limitato, in secondo luogo ho avuto la possibilità di girare delle scene ottime anche in condizioni di poca luminosità se non di totale oscurità. Fondamentale, poi, è stato riportarle su pellicola dato che non avevo nessuna intenzione di ottenere quello stile sporco che tanto predicano e contraddicono i seguaci del "Dogma".


 


In futuro continuerai a conciliare il lavoro di documentarista e fiction?


Credo proprio di si. Per me non è difficile riuscirci. Sono entrambi modi di raccontare storie. Anzi ritengo che il vero modo di fare cinema sia attraverso il documentario e non attraverso la fiction. I miei due prossimi progetti sono diversi: un film già realizzato che uscirà ad ottobre, Se devo essere sincero con Luciana Littizzetto e un documentario che ripercorra la strada fatta da Primo Levi ne La Tregua. Poi ho comprato i diritti di un libro di Don De Lillo, Body Art, perchè ho intenzione di farci un film. Per me è una grande onore anche perchè sarebbe il primo libro dell'autore trasposto per il grande schermo. 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

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