"Per me l’orrore viene sempre da dentro"incontro con GEORGE A. ROMERO

In attesa del prossimo omaggio del Torino Film Festival vi presentiamo un interessante incontro con il regista di "Zombi" –
a cura di Giulia D’Agnolo Vallan

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18° TORINO FILM FESTIVAL –
Torino,– 24 novembre /2000

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GDV: Hai definito “Bruiser” non un film dell’orrore, ma una favola. Vorrei che ci spiegassi cosa intendevi.

ROMERO: Sicuramente più che un “puro” horror, anche se ne possiede alcuni aspetti, si tratta di una favola, una favola sulla perdita d’identità, che in America oggi è particolarmente diffusa. E’ molto difficile trovare la propria identità, pure quando uno cerca di farlo, magari disegnando dei graffiti sui muri – ma anche di graffiti ce ne sono ormai già troppi… E lo stesso vale per altri tentativi, come i tatuaggi, i piercing: troppe persone ormai li hanno e perciò questi segni non sono più denotativi di un’identità. Soprattutto i mass media ci impongono un’identità in termini commerciali: siamo tutti griffati, l’etichetta, la maglietta particolare… per cui questa impossibilità di identificarsi genera frustrazione e dalla frustrazione scaturisce la violenza. E certi episodi di violenza nelle scuole possono avere queste origini. Quindi effettivamente si tratta più che altro di una parabola, che è “orribile”, ma non è “horror”.

GDV: Sempre sul tema dell’identità: da “Jack’s Wife” (“La stagione della strega”) passando per “Martin”, fino a questo film, l’identità è un tema molto ricorrente nell’opera di Romero. Vorrei chiederti come questo tema si è evoluto nel corso degli anni, cosa è cambiato e perché ti interessa così tanto.

ROMERO: Effettivamente il tema dell’identità è ricorrente perché secondo me, nel corso degli anni, è diventato un problema che ha pervaso sempre di più la nostra società. Negli anni Sessanta, quando tutti pensavano che si potesse in qualche modo modificare questa società, c’è stato l’inizio di una sorta di rivoluzione per trovare nuove forme espressive, ad esempio in campo musicale, per elevarsi ed esprimersi ad un altro livello. Purtroppo questa rivoluzione, come tutti sappiamo, non è poi avvenuta e anzi c’è stata una sorta di china discendente e i media e la pubblicità hanno sempre più invaso la nostra società. Per cui oggigiorno possiamo vedere che il cinema, e la letteratura con i romanzi, tendono a essere tutti molto omogenei. Quindi a partire da questo picco degli anni Sessanta, da quest’idea di rivoluzione in cui ci si augurava di poter pensare più liberamente, trovare una diversa forma espressiva, si è poi passati alla situazione attuale, che senz’altro è peggiore rispetto ad allora. E anche quando facciamo cose banali come comprare i mobili, compriamo le cinque sedie che troviamo in un negozio, che magari non sono quelle che vorremmo noi. E sempre per quanto riguarda l’arte e questo problema della mancanza di identità, in particolare nel mio genere, la pretesa degli Studios è quella che io diventi parte della tendenza esistente. Ecco perché ho fatto “Bruiser”. Canal+ mi ha lasciato fare il ‘mio’ film, completamente, mentre nessuno Studio avrebbe finanziato un’opera come questa.

GDV: Non so se mi sbaglio, ma “Bruiser” mi sembra avere anche delle componenti letterarie: volevo sapere se c’era qualche particolare esempio di letteratura che ti aveva influenzato e quale.

ROMERO: Non so, forse Il fantasma dell’Opera. Anni fa ho visto un film, “Occhi senza volto” di Franju, e l’immagine di questo film mi ha colpito e ho iniziato a pensare a come utilizzarla. Poi riflettendo sui problemi mi sono reso conto che effettivamente avrei potuto usare quest’immagine proprio per esprimere alla perfezione il problema dell’identità. Forse altre influenze sono Kafka e un po’ i classici gotici. E’ un film sicuramente di fantasmi, quindi mi viene in mente anche La maschera di cera (Romero nomina esplicitamente “House of Wax”, la versione cinematografica di André De Toth del 1953, n.d.r.), in 3-D.

Mauro Gervasini: Volevo chiedere, a proposito della presenza dei mass media nel suo cinema e in particolare in “Bruiser”, che ruolo ha il “Larry Case Show” e tutto il contrappunto radiofonico all’interno del film?

ROMERO: Anche in “Martin” c’erano i talk show radiofonici, che in realtà volevano dire, appunto, la verità – che poi verità non era, anche se ”Martin”, ogni volta che parlava alla radio, era sincero. Il ruolo dei media è proprio quello di incrementare il sensazionalismo e in “Bruiser” la radio ha la stessa funzione, per cui in qualche modo apparentemente vuole che si dica la verità, ma poi in sostanza cerca di far esplodere la tensione proprio per preservare questo sensazionalismo tipico dei mass media. In qualche modo, quindi, ha una responsabilità per certe manifestazioni di violenza. Io uso sempre la radio nei miei film e ritengo che in America, negli Stati Uniti, le sparatorie che avvengono fra i giovani, se non proprio motivati dai mass media senz’altro sono un tentativo da parte di queste persone di attirare l’attenzione e quindi di mostrare la propria individualità. E allo stesso modo in cui Martin usava la radio per dire la verità, in “Bruiser” Henry la usa per confessare, anche se poi la verità non sembra essere uno scoop, una notizia sensazionale.

Pubblico: Il fatto che lei abbia girato questo film per la televisione, vuol dire che il morbo della perdita d’identità ha preso anche il cinema americano d’oggi?

ROMERO: Non so come si sia diffusa questa notizia del film fatto per la televisione, forse perché Canal+ è il distributore internazionale… In realtà, Bruiser è stato fatto per il cinema, anche se magari negli Stati Uniti non avrà una distribuzione in sala, ma andrà direttamente in videocassetta. Il distributore negli Stati Uniti, comunque, è Lion’s Gate.

P. : Nel suo percorso professionale è in qualche modo passato a un cinema in un certo senso più intellettuale, come vediamo adesso dalla collaborazione con Canal+. Ha la sensazione di aver in qualche modo varcato un confine? E quali sono i tre/quattro film horror di tutti i tempi per lei?

ROMERO: Difficile… Per quanto riguarda la sua prima domanda, io ritengo che in qualche modo un racconto fantastico sia comunque un messaggio, un modo per me, in quanto regista, di esprimere un’opinione. Io non sono il tipo da “Venerdì 13”, nel senso che comunque non sono una persona che ama misurarsi con un puro esercizio di paura, ma se per esempio dovessi fare oggi un altro film sugli zombi, non ho assolutamente in mente che tipo di storia potrei creare. Quello che so già è il tipo di tema che affronterei, che è una caratteristica tipica della società americana, quella di ignorare i problemi. Negli Stati Uniti, ad esempio, il modo di affrontare i problemi come la droga o come il crimine è quello di ingaggiare più poliziotti, comprare più armi per proteggersi e per difendersi, allontanando il problema senza risolverlo alla fonte. Per cui io in qualche modo penso sempre prima al tipo di argomento che voglio trattare e poi ci costruisco intorno una storia. Forse questo è un tipo di atteggiamento che non adotto quando faccio degli adattamenti come è accaduto con “La metà oscura”, per esempio. In quel caso, infatti, presentavo la problematica di Steve (King, n.d.r.). Però “Knightriders”, per esempio, esprime esattamente il mio punto di vista. Ricordo quando è uscito Zombi: i critici dicevano che sotto la superficie c’era un messaggio. Ma il messaggio non era dietro, era assolutamente diretto, in faccia a tutti quanti. (risate) Cioè la gente pensa sempre che io nasconda dei messaggi tra le righe, in realtà sono sempre molto espliciti. Per cui, in questo senso non posso dire di aver cambiato atteggiamento nel corso degli anni. Detto questo difficilmente uno studio consentirebbe un approccio al cinema come il mio. In tal senso Canal+ è stata davvero meravigliosa, in quanto ha letto la sceneggiatura, è piaciuta e mi ha lasciato totale libertà di movimento senza nessun tipo di interferenza.
Per quanto riguarda i miei film horror preferiti, è molto difficile rispondere perché il genere è senz’altro composito, presenta diverse modalità di espressione. Da parte mia posso citare “I racconti di Hoffman”, che non è un horror, ma comunque uno dei miei film preferiti, il film che mi ha spinto a diventare regista; posso citare “L’esorcista”, l’”Halloween” di John (Carpenter n.d.r.), “Distretto 13”. Dovrei in qualche modo tornare alla mia infanzia, quando i film che ho visto mi hanno profondamente colpito, e probabilmente sceglierei La cosa da un altro mondo o Il bacio della pantera.

P.: Lei ha detto più volte che gli Studios americani non apprezzano il suo modo di fare cinema o comunque si è trovato più libero a lavorare per una produzione francese. Io vorrei ben capire perché, per le produzioni americane, dove il cinema horror sta in questo momento vivendo un nuovo rinascimento, George Romero è un regista che fa così paura.

ROMERO: Questa nuova tendenza, questo revival del cinema horror è in realtà orientato in senso molto commerciale, per cui se non ho fatto l’originale “Venerdì 13”, non vedo perché dovrei aver voglia di fare un sequel adesso. Per esempio “Scary movie”… no, sto sbagliando, “Scary movie” è la presa in giro della presa in giro dell’horror, del genere. (risate) In realtà parlavo di “Scream”, che originariamente doveva intitolarsi “Scary movie”: ricordo quando la Miramax, in cerca di un regista per il suo film, mi propose la sceneggiatura. Credo che ogni regista di film horror abbia avuto quello script fra le mani e ognuno di noi aveva detto di no perché le idee erano assolutamente confuse su come realizzare il primo episodio della trilogia. I miei agenti dissero che loro volevano un horror divertente, ma i Weinstein invece mi dissero “no, vogliamo che sia un vero horror”. Poi in realtà “Scream” ha avuto fortuna perché nel presentare quest’aspetto leggero, umoristico, autoreferenziale si è proposto ad un pubblico giovane che voleva quel tipo di film, non qualcosa di realmente aggressivo. E questo è il punto di questo nuovo trend, l’esser basato sul presentare un vecchio esercizio di fronte a un nuovo pubblico. Se io avessi presentato la sceneggiatura di “Bruiser” a uno studio mi avrebbero immediatamente chiesto “ma come viene?” e quindi è questo il tipo di approccio. Vediamo ad esempio che cosa è successo al primo “Blair Witch Project”, che appunto adesso è stato in qualche modo ‘corrotto’ da Hollywood con il “Blair Witch 2”.
Detto questo, non è che a priori io dica di no, mi presento sempre quando mi convocano, ma sono molto attento: ad esempio nel caso in cui mi hanno proposto di realizzare un film sulla vita di Edgar Allan Poe mi hanno dato da leggere la sceneggiatura e io l’ho trovata piena di errori sul piano della cronologia e gli avvenimenti della sua vita. Quindi ho corretto per bene tutta la sceneggiatura, sono tornato ad incontrarmi con i responsabili della produzione, che mi hanno detto “ma noi sapevamo perfettamente che non era corretta, però è così che volevamo che il film venisse fatto”. Così ho perso anche questo incarico. (risate) Per esempio, mi hanno incaricato di fare la pubblicità di un videogame, che si chiama “Resident Evil” e devo dire che mi è piaciuto molto, non era un puro horror, più che altro una specie di adventure, ma era una storia che mi ha consentito in qualche modo di tornare un po’ a Zombi. Quindi avrei voluto dedicarmici ulteriormente (verosimilmente Romero si riferisce alla possibilità di dirigere il film cinematografico di “Resident Evil”, n.d.r.), però la mia idea, che in quel caso era molto commerciale, si scontrava invece con quella del responsabile di questa società – che era una società europea – che non conosceva assolutamente il videogame e voleva invece un tipo di prodotto più artistico, un film bellico come “U-Boot 96”, con molta più tensione. Per cui, come si può notare, i motivi sono tanti.

P.: La mia non è in realtà una domanda, ma un augurio, quello di riuscire a vedere prima o poi sugli schermi italiani una vera retrospettiva dedicata a George Romero, i cui film sono arrivati soltanto parzialmente da noi in Italia e molto spesso malamente. Per esempio “Martin” è stato completamente snaturato nella sua essenza, nella distribuzione di Dario Argento che l’ha fatto diventare un altro film; “Knightriders” non è mai arrivato; “There’s Always Vanilla” non è mai arrivato. L’immagine che noi abbiamo di Romero, l’immagine che molti di noi hanno di Romero, è piuttosto parziale. Quindi io spero di vedere prima o poi, magari a Torino, una bella retrospettiva dedicata a Romero. E poi una piccola domanda: ci sarà mai un “Twilight Of The Dead”?

ROMERO: Innanzitutto la ringrazio molto e sicuramente sarebbe bello, è una speranza anche per me. Il problema grosso è quello del reperimento delle copie in 35 mm. Negli Stati Uniti non vengono più conservate, vengono trasformate in video e quindi la difficoltà è proprio questa: trovare le copie. Detto questo mi piacerebbe molto, chissà, magari anche qui.
Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda, su “Twilight Of The Dead”, forse ho trovato dei soldi, nel senso che una società americana, la “Anchor Bay”, che in realtà è la società video che ha curato il restauro dei miei film e la loro edizione in DVD, mi sta facendo una proposta. Però il problema, come sempre nei miei film, è poi quello della censura, di tutta una serie di difficoltà che si incontrano. Detto questo, loro sembrano interessati a questo progetto e potrebbero essere la scelta giusta. Grazie ancora per l’augurio comunque.

P.: All’inizio di “Bruiser”, il protagonista ha delle proiezioni fantastiche di violenza immaginaria, che lo rendono un po’ affine al professore di The Crate, l’episodio di “Creepshow” interpretato da Hal Holbrook, dove per l’unica volta lei ha utilizzato un orrore che non era antropomorfo, ma dovuto a una mostruosità proveniente dall’esterno. Mi chiedo se questa ‘antropomorfizzazione’ dell’orrore che lei ha perseguito in tutti i suoi film attraverso la creazione di orribili simulacri di esseri umani, è voluta per allontanarsi da una certa tradizione fantastica, orrorifica degli anni ‘40/’50, che puntava invece su un orrore non umano, proveniente dall’esterno…

ROMERO: No, per me l’orrore viene sempre da dentro, in quel caso era una storia di Steve e comunque anche in quel caso il mostro poi viene usato dal professore per uccidere la moglie e quindi la motivazione è sempre interiore. Io ritengo appunto che i mostri non vadano usati come un qualcosa di esterno perché in quanto tali rispecchiano comunque sempre il lato oscuro che ognuno di noi possiede. Io li uso proprio tematicamente in questo senso. E’ anche per questo che non potrei mai fare un puro film di mostri, anche se mi rendo conto che, per esempio nel cinema giapponese, il mostro può simboleggiare qualche cosa, può avere un significato politico. La mia obiezione principale, appunto, nei confronti della tradizione dei film di mostri è che questi vengono usati poi per restaurare l’ordine com’era, mentre secondo me la presenza di questi mostri deve servire per una rivoluzione, per sovvertire l’ordine. E questo è il motivo per cui non ho mai fatto un film seguendo questo tipo di tradizione.

(Trascrizione e revisione a cura di Davide Di Giorgio)

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