PERCHÉ NO – Carol, di Todd Haynes

Una restaurazione pienamente in atto, un cinema-giocattolo a lunga conservazione. Con Cate Blanchett e Rooney Mara così brave, così in stato di grazia, da essere insopportabili

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Forse a qualcuno, qui dentro (a cominciare da me), sfugge completamente il concetto di perfezione al cinema. Che cos’è il film perfetto? Quello che ha inquadrature studiate a tavolino, dialoghi perfetti, attori (in questo caso attrici) in stato di grazia. Come una proporzione matematica dove, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato è sempre lo stesso. Forse è così ma forse no. Non lo si è mai capito e non lo si capirà mai. Oppure lo si vuole deliberatamente ignorare. Perché ci si illude che un film viva oltre la sua stessa forma, respiri, parli, cambi, invecchi benissimo o si mantenga giovane nel corso degli anni. I film sono come le persone, diceva François Truffaut. Per Haynes invece sembra essere la mimesi di qualcosa di già esistente. Imitation of Life. Attraverso un romanzo (in questo caso quello di Patricia Highsmith del 1952 mentre per Mildred Pierce c’era quello di James M. Cain) o un film (sempre Mildred Pierce, quello di Curtiz del 1945 con Joan Crawford). Ma anche di un’immagine epoca, quasi riproduzione delle vecchie fotografie da magazine di moda, con un’attenzione maniacale, ossessiva del dettaglio.

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rooney mara in carolGli anni ’50 ritornano nel cinema di Todd Haynes come, in certe forme, sono stati un elemento ricorrente in quello di Tim Burton. I due cineasti, in effetti sono quasi coetanei: Il primo è nato nel 1961 mentre il secondo nel 1958. Ma se in Burton quel decennio come passione perduta per un tipo di cinema vissuto/sognato/immaginato da bambino, in Haynes il procedimento non è solo filologico ma ha anche qualcosa di archeologico. Come se quel suo cinema andasse a recuperare l’acconciatura, il fascio di luce sul volto e l’attenzione sugli oggetti: guanti, macchina fotografica, sigarette, lampadina del tavolino del ristorante.

cate blanchett in carolSi sente tutto il rumore del set dentro Carol. Quasi un cinema che ripete la stessa formula algebrica a 13 anni da Lontano dal Paradiso (e Carol finisce per ridimensionare anche quel film) che apre i garage per far uscire le auto d’epoca, che trucca lo spazio di New York, che lascia avvertire la presenza del fuori campo, quindi svela anche parte del making of, mentre cade la neve. E i controcampi negli sguardi tra Cate Blanchett e Rooney Mara sembrano saggi impeccabili di una scuola di recitazione, dove si cattura la luce ideale per immortalare lo sguardo ideale. Bravissimi tutti, da Cate Blanchett e Rooney Mara così straordinarie da apparire insopportabili, a Ed Lachman la cui luce sembra essere ancora più geometrica di quella di Russell Metty nei film di Douglas Sirk. Peccato che lì si sentiva la presenza di una materia pittorica che Carol invece si sogna. Tutto resta lì, ghiacciato dentro lo schermo che non si oltrepassa nella rappresentazione delle differenze di classe e dell’omosessualità. Dove non sfugge niente. Al contrario di Mildred Pierce e soprattutto di Velvet Goldmine e Io non sono qui.

La restaurazione in Carol è pienamente in atto. Nelle lacrime artificiali, nei riflessi dei vetri delle auto bagnati dalla pioggia (confrontateli con quelli di Michael Mann e poi ci rivediamo qua). Dove l’intensità, la passione e il dolore sono formule anche queste. Proviamo a sdoppiare questo ‘breve incontro’ con quello sì imperfetto ma trascinante tra Robert De Niro e Meryl Streep in Innamorarsi di Ulu Grosbard. Formule avvelenate (come il Poison del film d’esordio di Haynes), di un cinema-giocattolo a lunga conservazione. Come quelle case che si puliscono ogni giorno. Dove non c’è un filo di polvere. Ma dove non si vuole entrare per paura di sporcare. Figuriamoci noi col nostro passo da elefante. Altro che Eden. Carol raffredda il cuore, alimenta il non-piacere del cinema perché ci vuole dire qual è quello giusto. Si richiama Douglas Sirk ma si ha soggettivamente l’impressione di sentire i suoi ululati di dolore dalla tomba se vedesse questo film. Imitation of Life. Lontano dal Paradiso. E se un altro cinema diverso da questo è l’Inferno, ci si va più che volentieri.

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    5 commenti

    • Un film emozionante e bellissimo, superlativa la Blanchett. Recensione incomprensibile con paragoni fuori luogo e inutili isterie verbali (chissà forse anche un Farassino si rivolterebbe nella tomba a leggere queste sue righe, che dice Emiliani?). Va detto che anche il Perché si è tutto un programma. Era assai più incline alla perfezione formale di Sirk Lontano dal paradiso di questo.

    • Simone Emiliani

      La ringrazio per le sue puntuali e attente osservazioni. Mi sfugge solo una cosa: cosa c’entra Farassino?

      • Era per dire che certe frasi sopra le righe suonano inutilmente offensive, pur nella legittimità di affermare che una cosa non piace o non la si ritiene all’altezza. Non credo che a lei farebbe piacere sentir dire che il critico X deceduto (Potevo dire Kezich, Rondolino o un altro) si rivolterebbe nella tomba a leggere una sua recensione per sminuire la portata del suo scritto. Saluti

        • Se mi permettete l’intrusione: a me Carol è piaciuto moltissimo, ma qui la polemica è infondata. Emiliani scrive “Si richiama Douglas Sirk ma si ha soggettivamente l’impressione di sentire i suoi ululati di dolore dalla tomba se vedesse questo film”.
          Scrive “soggettivamente”, è una sua personale lettura e impressione. Non vedo il motivo di scomodare il compianto Farassino. La sua è solo un’iperbole narrativa, non va mica presa alla lettera!

          • Io personalmente ho trovato Carol un film dignitoso nel suo genere. Non vorrei fare il processo a chi ha visioni differenti, ma a mio parere il problema in questa recensione è la mancanza di argomentazioni valide che un critico di cinema dovrebbe saper esporre in maniera chiara e coincisa. A quanto pare il messaggio del critico (e non del film) non è arrivato … Desolé