PerSo 2019 – Zumiriki. Incontro con Oskar Alegria

Durante il PerSo 2019 Oskar Alegria racconta del suo film, Zumiriki, e dell’esperienza di 4 mesi sopra un’isola oggi sommersa dalle acque, che hanno cancellato la zona dove è nato e cresciuto

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Perché decidere di intraprendere una vita che potremmo definire monastica? È possibile salvare la memoria eclissandosi, scomparendo? Ripiegarsi sui propri ricordi e pensieri per aprirsi al mondo e creare un canale di comunicazione? Come si fa ad immaginarsi il futuro prendendo il via da un tempo ormai passato e sepolto? Oskar Alegria con il suo film Zumiriki prova a trovare delle risposte a questi importanti interrogativi.

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“Mio nonno mi raccontava che entrando nel bosco puoi sentire il gufo reale, un animale che proviene da un passato ancestrale. Il gufo per raggiungere i punti più distanti del bosco sceglie sempre lo stesso ramo. Nel film si racconta una storia piccola, che parte da un piccolo angolo, un piccolo spazio, che vuole raggiungere uno spazio lontanissimo. C’è un’isola su questo fiume dove hanno costruito una diga, da piccoli per giocare ci arrampicavamo sugli alberi, che erano abbastanza alti. Avevo voglia di tornare all’infanzia. È importante il gesto di attraversare il fiume da una parte all’altra. In un posto sconosciuto avrei potuto provare paura o noia, mentre con questo luogo avevo familiarità. La cosa che più mi spaventava in realtà ero io stesso, questa è un’esperienza soprattutto con sé stessi. Per filmare l’epilogo che dura sette minuti mi ci è voluto un mese. Avevo bisogno ci fosse un determinato tipo di vento perché si muovesse l’acqua. Ma se c’era troppo vento non andava bene. Ho dovuto girare 7 volte e dormire sull’acqua per 5 notti. È stato magico. Nonostante sapessi che gli alberi non fossero stabili non ho provato alcuna paura.”

Il film è pieno di paradossi e contraddizioni. Lo scomparire per creare una nuova memoria, nascondersi per mostrarsi maggiormente. Parlandoti  riesci ad esprimerti molto di più, al contatto con il proprio io interiore si trova il modo per comunicare con l’esterno. Un’altra contraddizione è che il miglior posto per nascondersi è la tua stessa casa, dove mai nessuno verrà a cercarti.

“Sono stato nel bosco quattro mesi con l’orologio che mia nonna teneva in cucina, mio padre mi disse che era troppo grande per la capanna. Ma l’orologio non funzionava. Era fermo su un orario 11.36.23 secondi, non so se della notte o del giorno, e ho vissuto 4 mesi sempre la stessa ora. In questi quattro mesi non c’è stato futuro, il tempo era sospeso. Durante l’esperienza ho voluto vivere senza tempo. Il tempo che si è spostato sull’orologio è stato in 4 mesi di soli 17 secondi,  a volte penso che l’esperienza sia durata solo 17 secondi. Il tempo è un concetto fuori dalla cognizione degli animali, vivere questa esperienza è stato provare qualcosa di animalesco. Ma nonostante non avessi un orologio ero sempre perfettamente cosciente dell’ora e del giorno, mi è bastato fare riferimento ad alcuni segnali come ad esempio la crescita delle piante stagionali. Per scandire il tempo c’erano tanti elementi: un uccello, il sole, i ciclisti. Quando ne vedevo uno vestito di verde sapevo che era domenica. È stata un’esperienza primitiva, l’assenza di macchine, la fame. Per me era importante proporre immagini moderne abbinate alle riprese di mio padre, ed inserire la mia voce sopra l’altra.”

Oskar ha preparato una capanna sulla sponda del fiume pensando di stare lì e registrare. Sarebbe potuto succedere di tutto, la piena del fiume, la presenza dei mosquitoes, una vipera o anche più semplicemente la polizia per ottenere i permessi. Il dispositivo filmico era un punto interrogativo. Con la parte ancora più misteriosa ed affascinante quando doveva entrare in acqua, dove le incognite erano ancora maggiori.

“L’unica cosa prevista era la capanna da costruire tra le sponde. La prima volta che abbiamo provato a trasportarla l’ha portata via il fiume, come avviene in Fitzcarraldo di Werner Herzog. È stato tutto una sorpresa, ho fatto soltanto una settimana di prova, nei quattro mesi sarebbe potuto succedere di tutto, non sapevo neanche degli animali che avrei incontrato. In realtà non sapevo neanche quanto sarei rimasto. Avevo 70 libri. Leggere su un’amaca è molto diverso che leggere altrove. Non mi preoccupavo molto dell’aspetto alimentare, c’era una sorgente, avevo 2 galline. Ero più preoccupato di recuperare delle pietre rosse, del lato poetico.”

Elementi imprescindibili sono la parola, nel film c’è lo spagnolo e c’è la lingua basca, e la scrittura, che ha una forza ed una libertà selvaggia. Zumiriki è una parola basca molto importante di una zona dove sono andati persi questi vocaboli. Il padre del regista decise di scrivere un dizionario e questa è l’ultima parola del testo. È il nome generico usato per qualsiasi isola stanziata su un fiume. È una sorta di riscatto di un naufragio linguistico, si cerca di salvare quello che è possibile. Questo posto dopo la costruzione della diga è andato distrutto, per riportarlo in vita non c’è niente di meglio della poesia.

“Mi viene in mente quella di un poeta cileno Jorge Teillier che si chiama A un nino en un arbol. La lingua era importante per la costruzione del film, quelle che si sentono sono le ultime bolle, l’ultimo ossigeno che può paragonarsi al battito di un cuore che si va spegnendo. Quindi vediamo un parallelismo tra il suono e la lingua. Durante questa esperienza ho sentito parlare basco per le prima volta, è una lingua che sta scomparendo.  L’isola invisibile registrata sott’acqua emetteva dei rumori, i suoi ultimi battiti. La diga toglie l’ossigeno, uccide il fiume, ho catturato le ultime bolle. L’unico modo di catturare l’invisibile è intercettare l’ultimo suono, l’ultimo canto del fiume. In 4 mesi ho perso la voce. La voce va via parlando troppo o troppo poco. Il film stesso parla della perdita della voce, per finire atono, insieme alla perdita della lingua, del rumore del fiume, fino a diventare una nuvola d’aria.”

Questo è un film artigianale e c’è del fango. Il primo ricordo dell’infanzia secondo Oskar è olfattivo. Quando ad un certo punto ti cospargi di fango, riesci a confonderti con gli animali e loro cominciano ad avvicinarsi, sparisci come essere umano. Togliersi di dosso l’odore è una cosa difficile. Azzerato l’odore, diventi parte del bosco, cominciano ad avvicinarsi anche i cinghiali, che sono notoriamente diffidenti, senza alcun timore, non ti vedono più come un nemico. Si raggiunge un equilibrio.

Zumiriki

“Il cinema è una trappola, senza trappola non c’è cinema, per filmare la genetta ho impiegato un mese e mezzo. Non sono mai andato via dal bosco, anche perché la cosa più difficile da togliersi di dosso è l’odore, per fare in modo da portare gli animali ad avvicinarsi. Questo è un film del fango. Quello della talpa è molto sottile, se lo strofini addosso al corpo trasmette l’odore, tanto che mi sono potuto avvicinare ad un cinghiale senza farlo scappare. Da bambino avrei voluto attraversare il fiume per scoprire il mistero della mucca, adesso volevo scoprire che la mucca fosse ancora là. È stato più facile riprendere gli animali selvatici, la mucca è venuta soltanto l’ultima settimana, ci siamo guardati negli occhi, è venuta a salutarmi. È importante perché lei rappresentava l’enigma della storia, tra noi si crea un raccordo, tra il selvaggio ed il domestico. Oltre al fango nel film c’è del gesso. L’interno della capanna era nero, come la memoria, e mi servivo del gesso per appuntare delle cose, ma proprio come i ricordi le potevo cancellare. Non mi piace molto né sentire la mia voce né vedermi fisicamente. Però a volte non potevo farne a meno. Il film è una trappola, mi sembrava ingiusto riprendere la volpe in piena notte, nella sua intimità, quindi ho deciso di riprendere anche me stesso nei momenti intimi. È un film molto fisico, che si crea con il corpo, come gli uccelli che creano il nido con il battito ed il movimento delle ali.”

E per finire il regista racconta del rapporto con il padre,  un rapporto molto particolare, piuttosto distaccato, senza troppi sguardi d’intesa, senza pacche sulle spalle, con laconici gesti di affetto. Dipende sicuramente anche dalla terra in cui è cresciuto, con la madre è diverso. “Mio padre non mi ha detto nulla. Questo film è l’abbraccio che rivolgo a mio padre. L’ho visto a Venezia che stava tremando, questo per me è stato sufficiente. Volevo creare un film in cui vivere per sempre.”

 

 

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