PerSo 2020 – Corpi in ribellione

Tra i film in concorso al PerSo tre documentari che affrontano in maniera diversa le derive del corpo, caduto preda della trance estatica della danza, detenuto di un carcere o vittima dell’alcolismo

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Anche per l’edizione 2020 il PerSo conferma la voglia di muoversi dentro uno sguardo multidirezionale, affrontando tematiche e situazioni originali. Alla ricerca di un cinema autentico, focalizzato sull’essere umano, con le sue derive, i suoi spazi invasi dalla paura, interprete inquieto di un realtà dai mille volti e corpi mutanti. Inafferrabili come i corpi di Patric Chiha, regista di Si c’était de l’amour, film vincitore del Teddy Award al 70° Festival di Berlino basato sul lavoro teatrale Crowd, di Gisèle Vienne, coreografa e drammaturga francese, uno spettacolo itinerante giunto quasi a festeggiare la terza decade di viaggio. Un’esperienza linfatica, sublimazione e semplificazione, estasi della danza, per eliminare le tensioni meccaniche nell’immobilità della slow motion e convogliare le energie sulla frequenza ripetitiva di un mantra, sotto ipnosi indotta dalla musica techno. Piacere, dolore, amore, gioia, pianto, l’impatto emozionale della contaminazione è davvero notevole, lo schermo sembra quasi pulsare, il battito sincronizzato dei perfomer tocca sensazioni antitetiche per superarle dentro un respiro superiore. La prima inquadratura mostra l’ingresso degli artisti in scena, impegnati in una sorta di sanificazione, entrata simbolica in un universo parallelo privato lentamente delle difese ed esposto ad una verità raggiungibile solo nell’abbandono. Ascensione affine, ma di segno neutro, rispetto a quella degradante immaginata da Gaspar Noé in Climax, dove l’euforia della mente viene fagocitata dalla psicosi, per lasciare un’area da colorare al momento, una volta individuata la fantasia. Qui il regista si limita a riprendere le prove dentro e fuori dal palco, un lavoro sufficiente a trasmettere il carattere iniziatico, ammissibile solo scendendo a patti con la propria coscienza, abbattendo i pregiudizi. Un riferimento più lontano, per il suo carattere già mainstream, è con Ema di Larrain, con il quale condivide sicuramente il canto di indipendenza, l’ebbrezza del ballo, differenziandosi per l’idea di controllo del gesto, da opporre alla libidine emancipata come segno di identità, una destrutturazione conseguita attraverso la diagnosi schematica della propria personalità. Il documentario è la seconda trasposizione in video di Crowd, la prima è un cortometraggio omonimo del 2014 della stessa autrice, pieno di angoscia, oscuro, caratterizzato dalle musiche poco rassicuranti di Scott Walker e Sunn O))). Chiha sceglie di utilizzare nuovamente questo linguaggio dopo  Brothers of the Night, ambientato nel giro della prostituzione viennese.

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Altro progetti di rilievo, presentato in concorso insieme a Still-Lifes di Filippo Ticozzi e Gli appunti di Anna Azzori di Constanze Ruhm, è Broken Head del polacco Maciej Jankowski, girato all’interno di un istituto di pena riservato ai delinquenti recidivi. Uno di loro, Andrzej, seguito nella quotidianità del carcere, è proiettato a compiere un percorso di redenzione, fuori dalla costrizione fisica, e a scrivere un futuro diverso e migliore, lontano dalla tossicodipendenza e dai guai. La sua vita si intreccia con quella degli altri reclusi, e la sensazione immediata lascia intendere un destino contiguo, nato dalla medesima emarginazione sociale, situazioni da cui fuggire e ribellarsi spesso con l’adozione di stili di vita disagiati, una violenza figlia di un decoro assente fin dal principio. La traccia riabilitativa di Andrzej, con l’incontro di uno psicoterapeuta, è uno dei fili di narrazione, registra nei discorsi una sincera dichiarazione d’intenti, il tentativo di osservare la fragilità con occhi meno impauriti, spiegare e dominare gli impulsi. Lasciando da parte i modi aggressivi, le facce cattive, a volte semplici strumenti di autodifesa, ritrovando una fiducia nel prossimo pesantemente compromessa.

Torna in fondo ancora la tematica del corpo, esuberante, ribollente e disorientato, bisognoso di cure. Il racconto lascia emergere brutti ricordi, insieme al rimpianto di una storia d’amore quasi naufragata nella lontananza, al timore di essere dimenticati dentro una cella senza parole di conforto, in un periodo inoltre come il Natale, perfetto ad accendere la nostalgia del passato. Tra le frasi di speranza e la mente bloccata dalla gioia di un amplesso, vengono alla luce alcune delle cause del disagio, l’alcolismo dilagante, la scorciatoia della droga, i nuclei familiari focolai di litigio. L’arco di trasformazione del protagonista subisce dei passaggi repentini di umore, rassegnazione nel leggere una lettera di addio, rabbia nel constatare l’impotenza di agire, dal prendere consapevolezza della necessità di un cambiamento alla diffidenza verso un mondo dove si sono raccolte troppe delusioni.

Al centro di El father plays himself di Mo Scarpelli troviamo un altro corpo irrefrenabile, quello di un padre arruolato dal figlio per interpretare se stesso, in un fantomatico film che dovrebbe raccontare la sua vita. Ma dopo anni di separazione il loro non è certo un rapporto facile. Il figlio, Armand, emigrato all’estero insieme alla madre, tornando in Venezuela trova il padre, Roque, schiavo dell’alcolismo, con un carattere intrattabile durante gli stati di inebriamento, contraddistinto da grida disumane e il piacere di scaraventare le cose per aria. Nell’accettare di lavorare alle dipendenze del figlio si rompe una dinamica di potere, genitore/figlio, lasciando esplodere un conflitto rimasto sopito per molto tempo. L’evoluzione della trama familiare si lega ripercorrendo le orme del padre, in perfetto stile road movie, sceglie delle tappe lussureggianti di vegetazione, affondando in una natura sempre più selvaggia, per sottolineare il progressivo deterioramento di Roque, l’umiliazione, la stravaganza a coprire delle debolezze evidenti. L’immagine cattura una discesa, se non addirittura una caduta, registra con una punta di cinismo le grida di un uomo pericolante, un baratro da cui Armand non ha la possibilità di estrarlo. Con il passare del tempo, alla fine si conteranno 42 giorni di ripresa, la relazione familiare risulta deteriorata ulteriormente, poco è servito il corredo genetico, per ricucire la distanza di vedute e compiere dei passi in avanti.

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