PerSo 2022 – Manuale pratico di lotta

Nei film in concorso PerSo Award una panoramica internazionale di spazi collettivi e movimenti individuali, di tragedie e sogni, su un mondo che ha la forza e la necessità di ritrovare l’illusione

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Il Perugia Social Film Festival riparte dalle battaglie. Etiche fisiche ed ideali. Contro le ingiustizie, le discriminazioni. Contro il sistema capitalistico e le disuguaglianze e la povertà di stato e la solitudine. Cerca il senso di comunità smarrito ed i valori di solidarietà oltre alla solite frasi di circostanza. Parliamo di ladri. Che cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca? Robin bank di Anna Giralt Gris esplicita la domanda brechtiana in forma visiva. Enric Duran è un attivista anticapitalista catalano. Dal 2006 al 2008 è riuscito nell’impresa di farsi dare mezzo milione di euro dalle banche per investire in progetti sociali. Soldi che non aveva nessuna intenzione di restituire. È lui Robin Hood, un ragazzo schivo con un quoziente intellettivo sopra la norma. Ed è sempre lui ad elaborare il sofisticato sistema di truffa, emulando quelli degli stessi istituti di credito, considerati perfettamente leciti. Lo schermo ripercorre la sua storia, in principio identica a tante altre di quegli anni, sintesi geniale di una generazione ancora disposta a lottare in piazza per degli ideali di giustizia. Poi insegue la sua ombra, l’esilio anonimo dove si e’ confinato per evitare il carcere, un universo di chat criptate, contatti segreti, discrezione, rischio. Libero ma braccato. Le lotte si sono dileguate di fronte a piaghe e carestie social, crisi energetiche, minaccia di guerre termonucleari, nel totale disinteresse. Le immagini della manifestazione di Genova del 2001, macchiata dagli episodi da macelleria messicana, fanno da cornice ad un fantasma. Ma non sono certo spariti i motivi per combattere, sopiti, drogati da un eccesso di informazioni. Intensive live unit ha un altro tipo di battaglia, ma lo stesso valore etico. Ondřej Kopecký e Kateřina Rusinová sono pionieri delle cure palliative all’ospedale universitario generale di Praga. Vivono a contatto con la morte, in una sorta di ultimo miglio prima di passare oltre. Uno spazio di dolore, di pianto, di congedo, che vorrebbero accogliente e premuroso per evitare quanto possibile di rendere la malattia un’odissea. Adéla Komrzý si aggira con la macchina da presa nel reparto, tra studenti neofiti, pazienti sfiniti, parenti addolorati, guarda i pezzi di un puzzle umano, e li ricompone in un quadro intriso di dignità. Sonda lo spessore di una parete misteriosa, di passaggio, sottile ed acquosa, e la trova pieno di dilemmi, plasmata di mattoni invisibili da interrogare. Cerca accuratamente le domande e lascia la porta aperta ad un nugolo di risposte, rovista con discrezione sui monitor di una fermata al capolinea, la vita ridotta ad un’illusione artificiale, i sensi smarriti di fronte al nulla. Tende una mano solidale, convinta che per affrontare la paura sia importante non restare soli. Del otro lado di Iván Guarnizo ci porta in Colombia, ed il suo racconto personale coincide con la necessità del paese di fare i conti con il proprio passato. Sua madre è stata rapita dalle Farc, le forze armate rivoluzionarie della Colombia. È stata nelle loro mani per più di seicento giorni, giorni passati nella giungla, ed annotati su un quaderno lasciato in eredità al figlio dopo la morte. Dopo la firma dell’accordo di pace, avvenuta nel 2016, è tempo di comprendere. Per onorare la memoria, certo, per imparare dagli errori e sgombrare il campo dai risentimenti, ed avviare l’unico sistema che vada oltre una semplice dichiarazione di intenti. Il regista non può fare altro che investigare e tornare sui luoghi del sequestro, seguire una mappa geografica, ed in quei luoghi dare libero sfogo ai sentimenti che albergano nel cuore, la rabbia ed il pianto. Non può fare altro che cercare di dare un’identità ai rapitori, per colmare quel vuoto di cui si sono resi responsabili. Come un in percorso terapeutico, affiorano prima i traumi, i nodi da sciogliere. L’inizio della cura è in quel principio, sepolto tra gli alberi ed i serpenti in agguato, ed è l’unica strada da percorrere, non esistono scorciatoie. Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso si legge nel libro I fratelli Karamàzov di Fedor Dostoevskij.

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Dust Of Modern Life è il bellissimo debutto nel lungometraggio delle regista tedesca Franziska von Stenglin. Il film è ambientato in Vietnam, dentro un villaggio ai piedi di una foresta. È un documento antropologico coloratissimo e quasi terapeutico per la gamma di sonorità naturali che restituisce. Racchiude nel diario etnografico l’anima carnale e quella spirituale della tradizione. L’estetica cromatica estrema, i giochi di luce, i canti di gioia e le danze, la calma e la serenità degli abitanti, ogni elemento concorre a formare questo circolo magico. Alla fine si giunge al culmine di una nuova alba, piena di annunci, di speranza, dopo il voto di devozione ripetuto in onore di dei antichi tra gli alberi del bosco. Ma l’apice è diffuso nella ritualità del quotidiano, nei gesti resi sacrali dallo sguardo, e l’occhio curioso e limpido dei protagonisti diventa la sintesi sublime di un’attesa soprannaturale e di una contemplazione del tempo mistica. Più che di una trama, stiamo parlando di un flusso, nel quale perdersi per sentire la vibrazione di una forza atavica, abile a stabilizzare il più altalenante degli umori e liberare i ricordi primordiali di un equilibrio perso nella inutile corsa verso la futilità. Riscoperta, semplificazione, ritorno. Decelerazione. Mangiare, dormire. Un’agenda minima che molti, troppi, hanno dimenticato. Anzi, peggio, venduto. Per comprare una promessa disattesa. E poi un’altra. Per tanti questo film potrebbe essere una cura, la prima lezione di essenzialità. Un insegnamento di questi tempi di magra addirittura necessario. A french revolution entra nel mondo dei gillet gialli, l’uniforme di questo piccolo esercito popolare. Le loro proteste negli anni recenti hanno avuto una risonanza gigantesca, dimensione difficile da ignorare per la compagine governativa di Macron. L’ennesimo rincaro del carburante nel novembre 2018 provocò in Francia un moto di indignazione, seguito dalle proteste in piazza organizzate con cadenza settimanale ed i picchetti sulle strade per guadagnare proseliti. La storia di Emmanuel Gras si focalizza sulla sezione di Chartres, sulle persone che la compongono e sui motivi che li spingono ad intraprendere la lotta. Riprende le riunioni, fa conoscere il metodo decisionale di un’assemblea, registra l’unanimità o la divergenza di vedute, l’entusiasmo e lo scoramento. Diventa in pratica un manuale del dissenso, facile da consultare, utile in un presente che manca dei presupposti di base per immaginare una rivolta. E mentre le immagini diventano storia recente e contemporanea lasciano l’eredità che bisognerebbe prendere in spalla. Benjamin Kling’s Interior Cinema di Thibaut Bertrand è l’altro film francese in concorso. L’uomo del titolo si occupa di tradurre film per non vedenti ed ipovedenti, per costruire grazie alle parole il pezzo mancante del puzzle che gli permetta di sentire il profumo di insieme di un’opera cinematografica. Il tempo del film è quello indispensabile a realizzare la copia udibile di uno dei capolavori di Alfred Hitchcock, Il sospetto. Il risultato è una riflessione sul potere esorbitante del cinema, sulla sua essenza plasmabile evocata in questo caso dalla voce. E non solo. Permette di ragionare sulla possibilità in presenza di fattori inconciliabili, almeno all’apparenza. Serve a muovere le illusioni facendosi beffa delle barriere, perché un sogno deride il loro statico contegno. Scopre per l’ennesima volta, e non saranno mai abbastanza, il dono più prezioso dell’arte, la sua disponibilità ad essere manipolata, immaginata nel candore di una nuova nascita, a patto di possedere un quantitativo sufficiente di onestà intellettuale. Ed un amore sincero. Last but not least il film di Stefano Casertano American Ring, un documentario sul wrestling indipendente nel Midwest americano. Girato attraverso momenti di osservazione e interviste della vita reale, questo film descrive la cultura e i valori degli stati centrali degli Stati Uniti – e il wrestling funge da allegoria del concetto esistenziale e politico del bene contro il male. Non c’è spazio per il dubbio: la realtà è in bianco e nero, poiché gli eroi del wrestling o sono buoni o cattivi, come il regista stesso spiega nelle note di regia.

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