PerSo 2025 – Incontro con Nicolas Philibert
In occasione della retrospettiva a lui dedicata dal festival perugino, il cineasta francese ha dialogato alla presenza del pubblico con Carlo Chatrian a proposito del suo approccio al documentario
In occasione dell’11° PerSo, il cineasta francese Nicolas Philibert è stato protagonista di una retrospettiva. Domenica 5 ottobre infatti, nella cornice del cinema Postmodernissimo di Perugia, sono stati proiettati i documentari Nénette (2010), Averroès & Rosa Parks e La macchina da scrivere e altri disastri (gli ultimi due, entrambi realizzati nel 2024, completano la trilogia iniziata nel 2023 con Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile, che gli era valso l’Orso d’oro alla 73ª Berlinale). La giornata è poi culminata con una masterclass dello stesso Philibert, che alla presenza del pubblico ha conversato con Carlo Chatrian, ex direttore del Festival di Locarno e della stessa Berlinale, nonché attuale direttore del Museo Nazionale del CInema di Torino.
“I film di Nicolas sono come dei riti per me, si possono avvicinare da più punti di vista” ha esordito quest’ultimo “Il cinema di norma è un’operazione di selezione: da uno spazio grande si seleziona una sua porzione; da questa si seleziona a sua volta un volto che proviene da un insieme di volti. Si tratta dell’arte del ritratto, di cui lui è un maestro, riuscendo a partire da un singolo individuo per ritrarre una collettività”. Il riferimento è in particolare al documentario Nénette, che mette al centro un orangotango del Jardin des Plantes di Parigi, specchio delle fragilità umane.
“Nénette per me è un’eroina. Io la vedo come una sorta di Mona Lisa, perché 600.000 persone si recano a osservarla ogni anno. Tutti la fotografano, quindi è come una diva. Il film prende alla lettera il concetto di ‘proiezione’, perché guardandola noi proiettiamo su di lei noi stessi. Il genere umano in questo documentario si confronta con questo animale che poi è quello biologicamente più simile a noi” ha replicato Nicolas Philibert “In questo modo diventa un racconto della collettività. Io preferisco questo termine a ‘comunità’: se quest’ultima infatti implica una sorta di omogeneità tra i suoi componenti, la collettività si caratterizza per un’eterogeneità di fondo, che è ciò che mi interessa”.
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L’attenzione del cineasta si è successivamente concentrata sulla condizione di Nénette, che dal 1972 vive all’interno di una gabbia nello zoo parigino: “La gabbia è costituita da una lastra di vetro di 4-5 centimetri, che per quanto ci separi da lei, da un’altra prospettiva ci permette di avvicinarci. Tuttavia Nénette è prigioniera, non solo in senso fisico, ma anche in termini simbolici. Filmarla, cosa che avviene quotidianamente, implica infatti proprio il concetto di prigionia, perché in qualche modo viene fissata per sempre in un’immagine. Filmare comporta quindi una responsabilità etica. Per questo è importante ottenere il consenso dei soggetti prima di immortalarli” ha spiegato, concludendo il discorso scherzando “Ovviamente ciò è relativo per quanto riguarda Nénette, lei non ha firmato per dare il consenso”.
Nicolas Philibert ha poi raccontato il ruolo che il linguaggio umano ha nel suo cinema: “Io ho un grande interesse nei confronti della lingua in tutte le sue accezioni, dall’ascolto al modo in cui le parole affiorano nei nostri interlocutori. Ho dedicato anche un intero film a questo tema, La Maison de la Radio, in cui filmavo proprio persone che lavorano in quella che è l’emittente radiofonica nazionale francese. Era come trovarsi sulla Torre di Babele: ognuno ha il proprio accento, i propri modi di dire. E anche in ambito psichiatrico (NdR. trattato negli ultimi tre film del cineasta) mi piace proprio osservare come i pazienti si esprimano quasi dando un senso nuovo alle parole. Poi presto molta attenzione alle voci, al punto che talvolta inizio a montare partendo proprio dal sonoro piuttosto che dal visivo. Per Averroès & Rosa Parks ad esempio ho proceduto così, concentrandomi molto sul modo in cui ciascuno dialogava con gli altri utilizzando proprio stile di comunicazione”.
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Il regista, rispondendo ad una richiesta di consigli da parte di una spettatrice aspirante narratrice, ha ammesso che probabilmente, se avesse dovuto iniziare la propria carriera nel panorama odierno, avrebbe fatto fatica: “Oggi i produttori chiedono ai filmmakers di pitchare il proprio film e io non ne sono in grado. Non amo fare discorsi e quindi spesso mi perdo, non riesco ad essere esaustivo come dovrei. E poi vogliono sempre un progetto sul film da girare molto dettagliato, con ad esempio una scaletta precisa. Beh, io giro documentari su cose che non conosco ancora, quindi per me sarebbe impossibile presentare un’idea con questi presupposti. Anzi, lo trovo assurdo!”. A proposito dell’inizio reale della sua carriera, che invece risale ai primi ‘70, ha sottolineato il ruolo importante che ha avuto René Allio (regista cinematografico e teatrale): “Non ho fatto scuole di cinema perché non ho passato le selezioni, che spesso si concentravano su nozioni scientifiche su cui non ero ferrato. Allora ho iniziato direttamente a lavorare sui set di Allio, dapprima come tirocinante ed in seguito come assistente. Lui era una figura sui generis: piemontese di origini, ma cresciuto in Francia; prima di diventare regista cinematografico a 40 anni circa, si è dedicato a tante altre forme d’arte, dalla pittura al teatro. Da lui ho imparato moltissimo”.
Nicolas Philibert ha poi spiegato come il suo approccio al cinema dipenda soprattutto da scelte di natura eitca e morale: “Non riesco ad arrivare nel luogo in cui devo girare in una posizione di superiorità rispetto a chi mi circonda. Non voglio essere colui che sa esattamente cosa dire, cosa fare, cosa mostrare, lasciando invece gli altri all’oscuro di tutto ciò. Amo anzi lavorare con umiltà, fidandomi di chi è con me sul set. Non so mai troppe cose in più di loro, molto è quindi figlio dell’improvvisazione, che per me è una necessità etica”. A tal proposito, il regista cita André Labarthe, che diceva “L’intenzione è il nemico”. Così allora Philibert ha concluso la sua masterclass di fronte al pubblico del PerSo: “Sono d’accordo con Labarthe. Quando le intenzioni sono esplicite, dichiarate, si passa a lato di ciò che è essenziale. E cos’è l’essenziale? Non lo so in realtà, ma sicuramente bisogna essere in ascolto per cercare di capirlo. La grazia che cerchiamo quando realizziamo un film può arrivare in qualsiasi momento, ma non ci è dato sapere quando. Chiaramente chiunque ha delle intenzioni, la mia ad esempio è quella di andare incontro alle persone. Ma quando l’intenzione, anche buona, si traduce in un imperativo, vuol dire che non si è capito nulla. Ecco perché esistono pessimi film con delle buone intenzioni”.






















