#PerSo2017 – Treblinka, di Sergio Tréfaut

Una testimonianza in viaggio sulla Transiberiana, dal libro di Chil Rajchman Treblinka. A Survivor’s memory e dalle memorie di Marceline Loridan-Ivans. Il vincitore della sezione Award del PerSo

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Alle 19 di sabato 30 il PerSo proietta il suo ultimo Award, Treblinka del portoghese Sergio Tréfaut, tratto dalle memorie di Chil Rajchman dal libro Treblinka. A Survivor’s memory. Sebbene il film prenda il nome da quello che è considerato il luogo più atroce fra Auschwitz e Dachau (se per un breve momento ci concediamo di fare paragoni), il campo di sterminio qui non si vede mai. Treblinka infatti è interamente girato su un treno che percorre la Transiberiana. Il treno diventa un reale protagonista e in effetti, suo malgrado, è un oggetto che è entrato a far parte dell’immaginario di quegli anni atroci del mondo, e che per via dell’intenzione umana è stato rivestito di una strana e fredda spietatezza.

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L’intuizione del regista è molto buona dunque, e sul treno Treffaut mette i suoi attori a recitare parti del libro di Rajchman. I principali interpreti sono un uomo e una donna, la quale, come ci racconta il regista al dibattito post film, è inspirata a Marceline Loridan-Ivans, regista e scrittrice (moglie del regista Joris Ivens) e unico membro della sua famiglia sopravvissuta ai campi. Un giorno Marceline ha raccontato al regista di aver tuttora timore quando si trova a prendere un treno. Ed ecco quindi il treno in primo piano, il grande simbolo di una rivoluzione, interprete anche lui della barbarie.
Gli attori che ci viaggiano sopra, Tréfaut li riprende nei riflessi dei finestrini, nei vetri smerigliati o bagnati dalla pioggia esterna, e quando li inquadra direttamente li sdoppia la sua macchina da presa, deciso a non concedergli mai nitidezza. Loro guardano fuori, il paesaggio scorre, recitano parti del libro di Rajchman e dell’autobiografia di Marceline Loridan-Ivans, Ma vie balagan.
L’unione fra le parole esplicite e i riflessi indefiniti, produce uno strano risultato: la rievocazione del passato come spazio gelido, che mentre si ritrae (poiché impossibile da restituire) sporge comunque come un’urgenza. La riduzione del contenuto sensibile (ci sono solo parole e immagini irraggiungibili) ci colpisce più di tutto; ci permette addirittura di distrarci da quello che viene raccontato e, che sia voluto o no, il risultato è quello, in un certo senso, della rinuncia al racconto. E noi da spettatori viviamo un notevole distacco: non siamo davvero partecipi delle vicende narrate, perché in realtà non è possibile davvero riportarle.

Questa messa in scena dell’impossibilità viene meno solo nei sottofondi musicali intensi e nella comparsa “reale” dei fantasmi, attori denudati che in silenzio invadono a tratti la scena… e che irrompono con un certo stridore nel silenzio che è la base del film, pure essendo un documentario principalmente parlato. La rigidità precedente ai richiami evidenti invece, ci restituisce a dovere un periodo storico che sembra esser stato dettato solo da scelte di mente più che di pancia; un periodo dove la razionalità vuota ha comandato sul mondo. Proprio nell’economia di contenuto quindi, Tréfaut trova il suo modo di evocare il passato durante questo lungo viaggio in treno, riuscendo a rappresentare l’impossibilità della lingua e delle immagini di raccontare l’olocausto.

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