#PerSo2018 – Gli spazi ritrovati del Perugia Social Film Festival

Il Festival arriva alla fine in una Perugia scossa dal vento, spingendo oltre la volontà cinematografica di riprendere gli spazi, le sale, la folla che si muove e diventa parte dell’immaginario

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Il PerSo 2018 si avvia alla chiusura e a Perugia arriva il vento. Le prime foglie che anticipano l’autunno si alzano e girano in circolo sullo stesso posto, come se fosse il Kansas prima dell’uragano, la fine della strada dei mattoni gialli, quello che alcuni chiamano home sweet home. Ma l’energia, che si muove avanti e indietro tra i quattro punti cardinali – le sale cinematografiche dove si svolge il Festival – non va via col vento. Anzi, sembra tutto parte definitiva dell’immaginario di Perugia, cinematografico e reale, che a questo punto quasi si confonde. In dieci giorni di festival – con più di 60 titoli nazionali e internazionali, cinque categorie di concorso, workshop, pitching, premi e laboratori per giovani registi – la volontà sociale e cinematografica del Festival spinge al di là delle immagini, le storie, i volti e gli schermi. Sembra sottolineare, invece, l’interazione che c’è in mezzo, quella dimensione tra pellicola e spazio, documentario e finzione, corpo fisico e mentale, sala piena e corridoio vuoto, tra il senso di casa e terra di transito. L’attimo che rimane sospeso tra cinema e realtà.

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Dallo sguardo sulla salute mentale come problematica sociale e visiva, la proiezione del documentario di 1975 Matti da Slegare (Bellocchio, Agosti, Petraglia, Rulli) e la figura di Clara Sereni – fondatrice della Fondazione La Città del Sole, scomparsa lo scorso luglio-  fino alla sezione Percorsi/prospettive – concorso di cortometraggi dedicato a promuovere l’integrazione sociale e culturale, con una giuria composta da rifugiati politici e migranti – il Perso short Jail – assegnato dalle detenute e dai detenuti della Casa circondariale di Perugia-Capanne – e l’impegno e la direzione artistica del cinema PostModernissimo, il PerSo si è svolto appunto, differente ma non indifferente, seguendo un flusso costante e pendolare che continua a riempire ogni angolo della città. Proponendo, più che un’idea di Cinema del reale, un modo di approcciarsi a essa, sempre sotto la prospettiva ineludibile della propria e fragile umanità.

Lo spazio fisico come posto edificato per poi essere distrutto, abitato per poi

diventare vuoto, ma soprattutto come testimone fermo della perenne mobilità umana, diventa anche uno degli argomenti fondanti al PerSo 2018. Tra i film in Concorso, Hotel Jugoslavija di Nicolas Wagnières racconta la storia di un paese che non c’è più, attraverso la figura di una costruzione in costante minaccia di morte. L’imponente albergo, simbolo dello splendore della Nuova Belgrado degli anni 70, svuotato, sgomberato, distrutto e oggi ritornato dalla morte, diventa il punto di riferimento per raccontare lo splendore, decadenza e caduta della Jugoslavia. Più che fissarsi sul palazzo vuoto come testimonianza di qualcosa che non c’è più, il regista rimane anche sui piccoli dettagli, gli oggetti, i numeri delle stanze, le chiavi delle porte, le finestre aperte per dove ancora entra il Sole. Come se si aggrappasse a qualche possibilità di ritorno, non soltanto di una forma o dimensione concreta ma anche di un’ideologia, di un’idea di futuro che almeno può esistere dentro quelle pareti. Perché trovarsi davanti uno spazio vuoto, vuol dire anche la possibilità di riempirlo.

Ma cosa succede quanto questo spazio non c’è più? Dialogando con Hotel Jugoslavia nella sezione del Concorso PerSo Award – come se fossero entrambi parte dello stesso piano sequenza – il documentario Rabot della regista belga Christina Vandekerckhove racconta il percorso contrario: la distruzione di un luogo di sicurezza e la resistenza all’abbandono. Gli abitanti di un blocco abitativo sull’orlo della demolizione, sono forzati a sgomberare il palazzo dove hanno vissuto per anni. Come se fossero già corpi assenti che raccontano il loro passato, la regista entra ed esce dagli appartamenti per trovarsi sempre con un senso di negazione, con l’impossibilità degli abitanti di far conto con la realtà. Mentre i mattoni cadono, le stanze diventano vuote, le pareti si crepano e i piccioni si appropriano lentamente degli spazi, gli intervistati vanno avanti con la loro quotidianità, parlando soltanto del passato, cercando in un modo o altro di rimanere in quella dimensione. Forse, aspettando che la realtà cada a pezzi prima di loro.

Sospeso in una via di mezzo tra queste due possibilità, l’edificazione come testimonianza e come distruzione, Taste of cement di Ziad Kalthoum – PerSo Masterpiece, miglior film a Visions du Reel 2017 e Miglior documentario al MedFilm Festival 2017 – racconta la quotidianità in loop di un gruppo di operai edili siriani, che lavorano nell’esilio costruendo grattacieli a Beirut sopra le rovine della guerra civile, mentre dall’altra parte della costa le loro case vengono bombardate e distrutte. L’unica interazione con la realtà della guerra in Siria è attraverso il telegiornale in tv, che guardano ogni notte protetti dal cemento in costruzione. Film di strana bellezza, che rende lirico pure il movimento di una gru intorno a una mole di cemento, mette in evidenza la distruzione che c’è in ogni costruzione, la necessità di rompere oggetti, materiali, tessuti e sostanze per renderla un’altra cosa. Nei volti degli operai siriani, inquadrati sempre dentro una cornice di ferro ma guardando il mare, c’è la trasformazione della materia – da solida a liquida -, la ricerca di un luogo e anche la necessità di costruire sempre verso l’alto, per non vedere ciò che succede laggiù.

I film finiscono e ciò che resta è lo spazio. La sala che si svuota, il flusso che si sposta, la giusta distanza tra giudizio ed emozioni, la vicinanza tra persone di origini, lingue e storie e sguardi diversi che raggiungono un linguaggio comune. Una Perugia che costruisce un percorso cinematografico e umano che rimane tra i mattoni e si espande al di là delle mura. Che anche se arriva alla fine, o trova un’apparente chiusura, non andrà mai via col vento. 

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