PESARO 42 – Le strade di casa.

Alcuni film extraeuropei consentono di fare il punto sulle strategie narrative del cinema di oggi: “Caja negra” dell'argentino Luis Ortega, “We can't go home again” di Toji Fujiwara e “Todo todo terros” del filippino John Torres.

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Due linee strutturali ben marcate sembrano percorrere il nuovo cinema extraeuropeo visto finora al Festival: da una parte la ricerca di una scarnificazione assoluta del racconto, di matrice antiautoriale, orientata dalla neorealistica convinzione che dalle tragedie storiche  emergano scintillando gli aspetti più nobili dell'umanità; dall'altra, la volontà di fare proprie le formule più avanzate del cinema americano, come la multilinearità e l'abbattimento dei confini tra reality e show. Al primo filone si può ricondurre uno dei migliori film visti sino ad oggi, "Caja negra", girato nel 2002 da un regista argentino allora ventiduenne, Luis Ortega, figlio del celebre attore e cantante Pablito Ortega. La vita di una ragazza divisa tra il lavoro in una lavanderia, una nonna ciarliera e appassionata di canto e un rapporto da recuperare con il padre affetto dal morbo di Parkinson e dedito all'accattonaggio. Tutto qui: ma la straordinaria bravura degli attori, la regia precisa e invisibile e la scrittura limpida fanno del film una sorta di contrappunto gioioso a un capolavoro come "Madre e figlio" di Sokurov. Un cinema fatto con due soldi, imperfetto ma capace davvero di colpire al cuore: una lezione impartita al cinema italiano sul suo stesso terreno.

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Alla seconda linea appartiene "We can't go home again", quarto film in concorso, del giapponese Toshi Fujiwara. "Questo film è frutto di un'improvvisazione collettiva" recita la didascalia iniziale, mentre il finale chiosa con una dedica a Robert Kramer. L'idea è quella di intrecciare cinque esili linee narrative lasciando gli attori liberi di costruire il film, un po' sul modello dichiarato del cinema indipendente americano dei tardi anni '60: la vita sentimentale di una segretaria, la noia di una regina sadomaso, l'autoscopofilia di un ragazzino e la cinefilia di un altro costituiscono, non senza una certa fatica, l'ossatura del film. Fujiwara  imposta e resta a guardare, ma in montaggio si trova a fare i salti mortali per non rischiare la confusione o la letargia del pubblico. E con mille acrobazie ci riesce; ciò che davvero dimentica di portare con sé, però, è forse quanto più gli premeva: il cuore. Il suo rimane un film puramente teorico, in cui la filigrana rimane sempre visibile e il respiro mozzo. Sarà perché farsi trascinare in un film senza un personaggio con cui empatizzare minimamente: Cassavetes, uno dei modelli di riferimento di Fujiwara, lo sapeva bene.


Mentre in piazza si proiettava "Perduto amor" in presenza dell'autore Franco Battiato e del suo paroliere-sceneggiatore-ombra Sgalambro, la sala 1 del Teatro sperimentale regalava ai pochi dissidenti una sorpresa. A una terza linea strutturale, del tutto personale, appartiene il film di punta della rassegna sul cinema indipendente filippino, non acclamatissima dal pubblico ma a tratti illuminante, forse la sezione più in sintonia con lo spirito del Festival. I giovani filippini girano a zero budget film diaristici in grado di rispecchiare il clima violentemente repressivo del loro paese: e lo fanno con un istinto viscerale a lavorare all'interno dell'immagine, saturandola e moltiplicandone i livelli, e a straziare i codici del lunguaggio cinematografico, che lascia a bocca aperta. Cos'è "Todo todo terros" del giovanissimo John Torres? Una storia d'amore e politica, un film-saggio alla Godard, una performance audiovisiva a un passo dalla videoarte, un musical? Difficile scegliere: l'impressione persistente è che comunque il futuro del cinema passi da queste parti.   

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