PESARO 42 – The beginning.

Il finlandese “Frozen land” apre la rassegna dei film in concorso, mentre “Derecho de familia” dell'argentino Daniel Burman conquista i favori del pubblico. Il nuovo cinema esiste!

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Il festival del Nuovo Cinema di Pesaro entra nel vivo con la proiezione del primo film in concorso, "Paha Maa" (Frozen land, ovvero Terra ghiacciata) del finlandese Aku Louhimies. La citazione di Tolstoi che apre il film racchiude già tutto il film, che vuole essere una riflessione sulla difficoltà di assumere su di sé il peso delle proprie inadeguatezze, più o meno colpevoli, e sulla tentazione di scaricarlo sul prossimo. La struttura multilineare consente allo spettatore di seguire dal principio la catena di conseguenze che dalla semplice falsificazione di una banconota conduce a uno stillicidio di omicidi e tentati suicidi, tutti rigorosamente a freddo. Il giovane Louhimies, d'apprendistato televisivo, impressiona nella prima parte del film per come riesce a dosare un materiale narrativo tanto caustico (si passa dall'alcoolismo alla droga alla pornografia più furente) senza risparmiare nulla, e con una certa dolorosa nordica impassibilità; merito di un accorto uso del sonoro, ipnotico e avvolgente, atto a rimarcare la distanza che separa i personaggi dalla coscienza delle proprie azioni, specialmente nei momenti topici del racconto. Il problema è che il vorticoso incedere degli eventi si esaurisce a metà film, cedendo il passo al racconto dell'elaborazione di un lutto (sembra qui riecheggiare il cinema DI Guillermo Arriaga) me abbandonando alcuni fili narrativi a metà strada (che fine fa il vecchio alcolista?). Il fatto che tutti si incrocino casualmente per la strada non risolve nulla, e anzi insinua il problema della coincidenza in un film di altrimenti rigoroso determinismo.

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Il secondo film della giornata, "Derecho de familia" di Daniel Burman, inaugura la sezione dedicata al cinema argentino contemporaneo. Il trentatreenne regista, al suo quarto film, completa una trilogia autobiografica che comprende "Un crisantemo enstalla en cinco esquinas" (2000) ed "El abrazo partido" (2003), tutti intepretati da Daniel Hendler. L'affiatamento e la direzione del cast, insieme con la spigliata leggerezza del racconto, balzano agli occhi in un film cui soggetto poteva essere anche bergmaniano: il senso d'inferiorità provato da un giovane nei confronti del padre ne inibisce la capacità d'amare il figlioletto, sino a quando la (ri)scoperta delle comuni debolezze appianerà i contrasti (intanto, però, il padre mette ovviamente un piede nella fossa). Per essere un buon padre bisogna essere un buon figlio, vuole dirci il cineasta che per motivi a noi sfuggenti è stato definito il Woody Allen argentino; e ci riesce con una certa eleganza, strappando sorrisi con appena un filo di ruffianeria, affidandosi sulla creazione spontanea degli attori e lasciando che il film emerga in superficie con i suoi  tempi lunghi, conquistati duramente, che sono poi i tempi non biologici della paternità. La prima parte tuttavia risente di una certa confusione, attirando ogni attenzione su una storia d'amore che poi resta ai margini del racconto, e lasciando lo spettatore a chiedersi dove il film vada a parare. Fidandosi ciecamente, e anche giustamente, della sue indubbie capacità affabulatorie, Burman  strappa un applauso per ogni dribbling stretto ma è talvolta difettoso nel controllo. Una più ampia visione di gioco ne farà forse un fuoriclasse.


A completare il quadro della giornata, i primi due film del cineasta-produttore-teorico spagnolo Pere Portabella, il mediometraggio "No compteu amb els dits" (1967) e il lungo "Nocturne 29" (1968), e le consuete rassegne dedicate al giovane cinema italiano (con i film di Marra, di Majo, Bruni Tedeschi), e al cinema filippino girato in digitale.

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