Pesaro 45 – "La sirena y el buzo", di Mercedes Moncada Rodrìguez (Pesaro Nuovo Cinema)

La narrazione della vita di un popolo del Nicaragua sulle coste dell’Atlantico è il tema di questo film della spagnola Mercedes Moncada Rodriguez, ospitato nella sezione principale del Festival. L’autrice elimina ogni dialogo e le immagini diventano un originale vettore espressivo. Un pretesto favolistica costituisce il sostrato narrativo dell’opera.

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Il breve incontro con l’autrice, successivo alla proiezione del film, ha chiarito un errore di prospettiva, al quale, però, si vuole restare romanticamente legati.

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Il film della Moncada Rodrìguez, trentasettenne spagnola con un’attività molto intensa sia per quanto attiene alla fiction che al film documentario, sin dal suo avvio rivela le proprie qualità. Una ripresa subacquea, con l’occhio rivolto alla superficie del mare dentro una nuvola di schiuma, ricorda tanto le geniali riprese herzoghiane di L’ignoto spazio profondo. Il corpo di un sommozzatore morto che galleggia da l’avvio al film che trova la propria originalità nel desiderio di sintetizzare due forme espressive: il cinema e il mito, nato e cresciuto attraverso il racconto popolare.

Siamo nel Nicaragua, tra il popolo dei Miskitos, la loro vita quotidiana diventa la forma attraverso la quale ci viene raccontato della (ri)nascita del mitico Sinbad. Dopo che la sirena avrà trasferito la sua anima nel corpo della tartaruga Sinbad potrà fare ritorno nel mondo.

Un mito popolare in piena regola che, però, è frutto solo della fantasia della regista. Per raccontare la vita quotidiana dei Miskitos ha inventato una favola che facesse da riferimento testuale.

In realtà ciò toglie poco alle qualità dell’opera, anche se, la prospettiva, errata, dalla quale era partita la nostra visione, portava con sé un carico di fascino maggiore.

In ogni caso, La sirena y el buzo, è un’opera solida che concentra nella forza delle immagini le proprie migliori qualità. La Rodrìguez rifugge dal dialogo – non la ritengo la migliore forma di comunicazione, dirà dopo il film – e quindi concentra la propria attenzione sulle immagini esaltandone le più celate potenzialità espressive. Cosicché attraverso la loro forma l’autrice riesce a stabilire un dialogo immediato e, ipotesi non del tutto scontata a priori, straordinariamente continuo con il proprio spettatore, grazie al rigore formale costantemente mantenuto.

Il racconto della vita quotidiana dei pescatori di tartarughe, delle difficili condizioni del parto, della vita durante l’adolescenza e quindi della complicata maturità, nella abile commistione tra favola e realtà, si dipana attraverso le originali prospettive che la Rodriguez ci propone. All’autrice evidentemente stava a cuore narrare di questa parte del Nicaragua, di questo popolo emarginato e povero tra i poveri. Lo fa con l’affetto sincero che emerge dalle sequenze iniziali della caccia e della morte delle tartarughe giganti, lo fa con trasporto quando con sguardo partecipativo segue le vite dei bambini o delle donne che si fanno portatrici e protettrici della vita.

 

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