Pesaro 45 – Vietato sognare, di Barbara Cupisti (Bande à part)

vietato_sognare di Barbara Cupisti Vietato sognare, di Barbara Cupisti procede per successivi avvicinamenti al finale che contraddice l’assunto del titolo. La regista lavora sui propri materiali determinata a mostrare per i nostri occhi che dovranno ancora una volta aprirsi. La visione utopica del finale è strutturata da un mutamento di registro visivo che riafferma, su quella strada, la possibilità del sogno.
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"Ho perso mia sorella in un attentato suicida. Tante “buone persone” mi hanno proposto di vendicarmi. Non capivo come potrei sentirmi meglio semplicemente uccidendo qualcuno. Ho pensato che fosse un prezzo estremamente basso da mettere sulla vita di qualcuno, quello di sostituirla con un altro corpo… Non esiste vendetta. Questa vendetta chi dovrebbe proteggere, e come potrebbe prevenire ulteriori attacchi? Ho deciso che volevo uscire da questo gioco". (dai dialoghi del film)

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Volti di uomini e di donne e una antica storia di guerra e di sopraffazione dominano da tempo eterno la Palestina. Barbara Cupisti è perentoria fin dal titolo del suo film ospitato nella sezione "Bande à part "del festival pesarese.
Il suo racconto procede per avvicinamenti progressivi e il film, nella sua ben congegnata orchestrazione, è una ouverture in crescendo che prepara lo splendido finale. L’autrice, dopo l’esperienza di Madri si muove con agile e duttile eleganza tra le storie, soprattutto dei bambini, e tra i luoghi, mostrandoci, ancora una volta, una realtà che ci prende sempre di soprassalto. Intervalla a quelle riprese i racconti raccolti di due esuli che dopo la via delle armi e della violenza, hanno scelto un’altra ipotesi per mettersi in gioco e per lo scopo che, da opposte e contigue sponde, vogliono raggiungere.
Colpiscono, come sempre accade ed è accaduto anche in altre occasioni su questi schermi, le storie che intrecciano il quotidiano. Colpisce vedere bambini e persone chiuse in una gabbia e altri uomini o altri bambini sbeffeggiarli. Si resta senza parole a sapere che solo i ragazzi sotto i sedici anni possono andare a trovare in carcere i loro cari.
Barbara Cupisti lavora sui propri materiali, con occhio lucidamente determinato a mostrare, facendoci riflettere sulla necessità di questa visione e il nostro occhio, benché stanco della quotidiana sopraffazione, dovrà ancora una volta aprirsi, necessariamente, su questo ennesimo panorama di sciagure non per farne terapia omeopatica, ma per rafforzare le ragioni di ogni rifiuto.
Il film della Cupisti ci ha fatto venire in mente lo sguardo immobile e insanguinato di Neda e qui, molto vicino a lei lo stesso sangue macchia indelebilmente il quotidiano, in una lotta che ormai sembra essere ordinaria, senza appello e senza più notizia.
Lo sviluppo trova, dicevamo, una sua ragione nello splendido finale. La regista, come in un contrappunto musicale, contraddice il perentorio assunto: non è vietato sognare, sterza sul registro visivo inventando una propria autonoma e utopica visione, perfettamente in sintonia con il sogno dei due suoi protagonisti. I due esuli a New York, l’ex combattente palestinese Ali Abu Awwad ora leader del movimento pacifista “Al Tariq” e l’ex soldato israeliano Elik Elhanan oggi portavoce dell’associazione “Combatants for Peace”, in rappresentanza dei due popoli in lotta, mettono in gioco se stessi parlando pubblicamente di possibilità di pace, escludendo dal loro lessico qualsiasi eventuale forma di vendetta, con un linguaggio finalmente comune, in una ricerca assidua di reciproca libertà.
Ma qui una riflessione. Perché questa storia, pur manifestata nella sua compiuta essenzialità nel finale, anche se più volte, in verità, annunciata durante il film, non ha costituito più pregnantemente la materia del film. Ciò nulla toglie agli intenti della regista, né vanno o possono essere dimenticati i volti dei bambini che la regista ci ha mostrato, ma avremmo riflettuto su un’ipotesi di pace che passasse attraverso le parole e le menti dei protagonisti.

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