PESARO 46 – "Vaho", di Alejandro Gerber Bicecci (Pesaro Nuovo Cinema – Premio Lino Miccichè)



vaho pesaro bicecciVaho del trentatreenne messicano Alejandro Gerber Bicecci, apre le proiezioni del Concorso. Il film ci offre un cinema sudamericano che pare una volta tanto affrancato dal “peso” della necessaria critica sociale. I suoi personaggi sono restituiti alla non comune, per quelle cinematografie, dimensione cinematografica più attenta alla vita interiore rispetto al contesto sociale in cui sono inseriti

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vaho pesaro bicecciJosé, Andrés e Felipe, tre reciproche amicizie e una passato infantile comune con una storia che incrocia quella di Efren il ritardato bidello della loro scuola accusato ingiustamente di avere molestato una bambina. La responsabilità dell’accaduto è in parte loro e di uno di essi in particolare. Efren era stato raccolto da una prostituta nel deserto accanto alla madre morta. Questa triste vicenda segnerà l’amicizia e forse la vita dei tre protagonisti.
Se non si fosse a Città del Messico tra piccole violenze quotidiane e inguaribile degrado urbano, ci si potrebbe trovare alla periferia di Mystic river, tanto questa storia ha affinità con l’altra affrancandosene decisamente per intenti e struttura complessiva.
Alejandro Gerber Bicecci è un trentatreenne regista messicano alla sua prima esperienza nel lungometraggio e con un buon curriculum quale regista di cortometraggi, Vaho è prodotto con capitali argentini.
Bicecci deve avere lavorato molto sulle storie che si intersecano nel suo film, un lavoro di paziente architettura che permetta di fare coincidere i numerosi pezzi disponibili. Almeno questa è l’impressione che ha lo spettatore guardando il suo film. Una gran parte delle quasi due ore di sviluppo della storia, sono dedicate alla costruzione, metodica e instancabile delle vicende. Quello che interessa a Bicecci è l’approfondimento psicologico dei personaggi, ma il suo sguardo riesce a trovare spazio per dare, nella progressione narrativa del film, alla vicenda un afflato corale non del tutto scontato all’inizio. I vari capitoli della storia intitolati con i nomi dei protagonisti e l’alternarsi rituale delle loro storie private dell’oggi, non avrebbero fatto immaginare che l’impronta finale fosse così forte nell’osservazione collettiva che, va detto, non soffre di alcuna incertezza.
Un cinema del Sudamerica, quindi, affrancato dal “peso” della necessaria critica sociale. I suoi personaggi, restituiti alla non comune dimensione cinematografica più attenta alla vita interiore rispetto al contesto sociale in cui sono inseriti, sono così parificati a quelli dell’occidente più opulento naturalmente votati all’introspezione e alieni da riscatti sociali.
Un film come Vaho (Oscuro) apre l’orizzonte sul senso di colpa, sul peso della coscienza, sul dolore del ricordo e sulla complicità silenziosa che distrugge i rapporti di amicizia. Non sono temi da nulla, il confronto che Bicecci ha scelto di giocare è arduo, ma la sua mano è stata solida nel raccontare questa amara storia che nella sua dimensione privata acquista l’universalità necessaria a renderla così completamente umana.

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