Pesaro 50 + 1 – Incontro con Tayfun Pirselimoğlu

La retrospettiva che il Festival di Pesaro quest’anno dedica a Tayfun Pirselimoğlu fa scoprire un cinema che non riesce a prescindere dalla realtà nella quale è pienamente calato.

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Il cinema di Tayfun Pirselimoğlu è frutto di un lavoro complesso che dipende fortemente dalla realtà dentro la quale si sviluppa e che la sua macchina da presa vuole intaccare il meno possibile. In questi giorni Pesaro ha offerto la sua filmografia completa, a cura di Giovanni Ottone, ed è questa la prima volta in Italia. Sono in esposizione anche alcuni suoi disegni e serigrafie che testimoniano la poliedricità artistica del regista.
Come ha scelto di diventare regista e cosa significa essere regista?
Io sono nato a Trebisonda, una città che oggi è devastata dalla modernità. Avevo uno zio che riparava orologi, ma si occupava anche di arte e lavorava in un piccolo cinema. Forse è grazie a lui che sono diventato regista. Da piccolo scrivevo delle storie, ma non pensavo che poi avrei fatto dei film. Ho studiato ingegneria e dopo gli studi sono andato a Vienna che mi ha aperto le porte al mondo dell’arte. Dopo qualche anno ho scritto un romanzo e ho sceneggiato il mio primo cortometraggio e poichè ero venuto in possesso di un poco di pellicola con la quale avrei avuto circa trenta minuti di girato, ho usato quella pellicola per realizzarlo. Così mi sono accorto di quanto sia difficile e duro girare un film. Poi ho realizzato il mio primo lungometraggio e dal secondo in poi li anche prodotti direttamente. Ma in verità ho sempre fatto tesoro dell’esperienza di lavoro che avevo maturato con il primo cortometraggio.
La sua città è storicamente un miscuglio di etnie e ci vive

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anche una comunità greca, come ci ha vissuto lei?
Trebisonda è un posto molto interessante che è situato sul confine di quella che era l’Unione Sovietica, un tempo le comunità che ci vivevano non erano come oggi e non nascondevano la propria identità.
Lei ha più volte parlato di ossessioni, che cosa intende esattamente con queste parole?
Penso che per creare qualcosa sia necessario avere delle osessioni, forse dovrei curarle, ma forse dopo non avrei più stimoli per creare. Comunque queste ossessioni riesco a trasporle nei miei film e nei miei libri e quindi sono parte del mio essere artista. Una mia ossessione è quella dei capelli e dei barbieri, un’altra quella degli alberghi cadenti, ce ne sono molti nel mio cinema. Ci sono ancora la televisione, il mangiare e il fumare tre tipiche attività turche. In particolare la televisione. La Turchia è uno dei Paesi in cui si consuma più televisione e si assesta al secondo posto tra i Pesi in cui si guarda di più.
In realtà credo che ogni persona nasconda un’ossessione e a me piace guardare questa apparente normalità della gente. In questo sento il mio legame con Dostoevskij.
Nei suoi film c’è sempre un uomo che spia una donna…
Mi piace molto l’idea del seguire una persona forse perchè amo il genere poliziesco. Mi affascina il trovare qualcosa di nascosto in ogni persona, solo così riusciamo a conoscerla davvero. Così si può raccontare una storia che nessuno conosce. È l’idea di scavare che forse è un’altra mia ossessione.
Il suo è un cinema in cui sembrano eliminate tutte le categorie della normalità, forse il film in cui questo è più evidente è Pus…
Il cinema è come un’arma carica con cui si può sparare sul pubblico, ma è meglio non usarlo così, io, invece, voglio trovare un terreno comune con il pubblico.

Tayfun Pirselimoğlu

Tayfun Pirselimoğlu

Quali sono i registi ai quali si sente più vicino?
È difficile rispondere a questa domanda perchè sono molti gli scrittori che amo ad esempio del Sud America e amo molto anche quel cinema, ma preferisco non fare dei nomi. Io non vengo da una formazione accademica, non ho studiato cinema, ma credo che il cinema possa mettere in relazione le persone.
La cultura asiatica quanto ha contato per lei e, quanto alle ossessioni, lei conosce il cinema del regista kazako Derezhan Omirbayev con la sua ossessione del tempo? In fondo nel suo cinema vi è una calibratura sempre precisa delle sequenze…
La Turchia è un vero crogiuolo di culture e di mentalità. Istanbul è il mio vero punto di riferimento, è il centro delle mie storie. Io provo a raccontare quello che vedo, ma il mio pensiero costante è Istanbul. Non conosco il cinema del regista kazako e invece, quanto al tema del tempo nei miei film vi è da dire che le mie lunghe sequenze sono la conseguenza della mia sincerità, non voglio dare indicazioni al pubblico con la mia macchina da presa. Le mie sequenze, d’altra parte seguono una propria circolarità e in questo forse c’è un’altra ossessione, ma è anche un atteggiamento molto orientale.

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