Pesaro 50 + 1 – Il cinema “non partecipativo” di Tayfun Pirselimoğlu

Il cinema di Tayfun Pirselimoğlu ci trascina dentro un universo esistenzialista al quale siamo disabituati. Il suo sguardo sulla realtà possiede la forza di una originale modernità narrativa.

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Tayfun Pirselimoğlu

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Il focus del Festival 50 + 1 di Pesaro è stato centrato sul cinema quasi naturalistico di Tayfun Pirselimoğlu.
Il lungo incontro che il riservato regista turco ha avuto con il pubblico del festival, sotto la guida attenta di Giovanni Ottone che ha curato la retrospettiva, ci ha fatto conoscere qualcosa di più sull’autore.
Non si può parlare sicuramente di una rinata circuitazione del cinema turco in Europa, ma la vittoria a Cannes di Nuri Bilge Ceylan e questa retrospettiva pesarese aiutano certamente a meglio conoscere i temi di questa cinematografia.
I cinque film e il cortometraggio di esordio costituiscono la completa filmografia del regista turco. Come si anticipava, parlando dell’incontro, il cinema di Tayfun Pirselimoğlu è direttamente calato nella realtà, diremmo addirittura dentro ad un non intaccato realismo che in qualche modo ne costituisce la cifra stilistica, ma in qualche occasione anche un limite quando il concetto teorico è portato alle estreme conseguenze.
La freschezza dei suoi due primi lavori, il cortometraggio Dayim [My uncle] (1999) e il suo

primo film Hiçbiryerde [Innowhereland] (2002), denunciano una certa verginità delle teorie sulle quali si fonda la narrazione di Tayfun Pirselimoğlu. Ci sembra, invece, che la sua produzione successiva, escluso l’ultimo film, soffra occasionalmente di un’eccessiva teorizzazione che ne appesantisce la fruizione e ne ostacola la fluidità narrativa. Le storie di Pirselimoğlu si incastrano in un ingranaggio a volte farraginoso, che a volte s’inceppa e in altre occasioni sembra girare un po’ a vuoto. Non si tratta di una scarsa qualità del suo cinema, che resta una riflessione sempre sincera sull’esistenza e sull’ineluttabile destino dei suoi personaggi intrappolati tra le maglie di un futuro già scritto, quanto, piuttosto la difficoltà di una ricerca, di una sperimentazione di percorsi narrativi. Sotto questo aspetto il risultato è progressivamente oscillante fino a risolversi positivamente nell’ultima opera.
I temi ricorrenti del suo cinema sono stati da lui stesso sottolineati nell’incontro con il pubblico

Hicbiryerde

Hicbiryerde

e sono quelli dell’identità e dell’aspetto segreto della vita dei suoi personaggi, che si svela, come in un poliziesco, progressivamente.
A partire del primo cortometraggio, Daym, a metà tra vicenda biografica e invenzione narrativa in cui la vita dello zio deciso a volare ad ogni costo, diventa divertente pretesto per un omaggio a questa figura che ritorna nei suoi racconti parlati e per immagine e che fa trasparire il tema della scoperta del personaggio, pur introducendo, per la prima ed ultima volta, finora, il tema del fantastico in questa aerea fantasia del volo.
Il suo primo lungometraggio, l’unico non prodotto dallo stesso Pirselimoğlu, è la storia di una donna che cerca suo figlio scomparso, inseguendone il fantasma per le città turche. Si affacciano già in questa prima prova sulla misura lunga, i temi del doppio e dell’identità, del mistero che ciascuno cela e la cui scoperta è frutto di lenta conoscenza. Un certo pudore sembra permeare la storia che l’autore vuole attribuire all’urgenza di denunciare un fenomeno preoccupante in Turchia dove scompaiono centinaia di persone senza che la loro sorte sia conosciuta. Ma la ricorrenza di una poetica che scopriremo fondata anche su questi temi quale quello dell’identità, nella sua accezione più lata, confermano l’indirizzarsi degli interessi di scrittura su questo aspetto che non è precipuamente turco, quanto piuttosto universalmente riconoscibile.

L’affrontare questi profili fa riconoscere in Pirselimoğlu un attento osservatore della natura

Riza

Riza

umana, ma nel contempo il suo desiderio di osservare senza intaccare il mondo che entra nell’occhio della sua macchina da presa, espone il regista al rischio di una certa uniformità del suo cinema che sembra caratterizzare la sua produzione centrale. Riza (2007) è la storia di un camionista costretto a soggiornare in uno squallido albergo poiché il suo camion è in avaria e non ha i soldi per farlo riparare, troverà il denaro ma dovrà fare i conti con la propria coscienza. Film notturno e silenzioso che comunica quelle riflessioni che caratterizzano la trilogia della coscienza e della morte che proprio questo film inaugura. Pus [Haze] (2009), secondo film della trilogia, esaspera i temi del cinema del regista turco, ma soprattutto ne intensifica le forme, ne acuisce gli effetti attraverso i lunghi e immobili piani sequenza in cui si muovono personaggi che, per quanto calati dentro una realtà concreta, ne sembrano alieni e distanti. La trilogia si conclude con Saç [Hair] (2010) in cui il tema del pedinamento è esplicito. Il

Saç

Saç

protagonista Hamdi, che ha un negozio di parrucche, è prossimo a morire poiché gravemente ammalato. Si innamora di una donna che entra nel suo negozio per vendere i suoi capelli e da quel momento Hamdi la pedina ovunque. Film, quest’ultimo, purtroppo penalizzato da un palinsesto che ha previsto il suo inizio alle 22,30 (ma bisogna considerare i ricorrenti ritardi) nonostante la sua ragguardevole durata di 131 minuti.

Così com’è accaduto con il lungometraggio d’esordio, Pirselimoğlu sembra riuscito a ritrovare quella naturale fluidità narrativa con Ben o degilim [I’m not him] (2013), il film che lo ha fatto conoscere in Italia, premiato al Festival di Roma per la migliore sceneggiatura. La storia è quella Nihat che si innamora di una donna che sembra scomparire per riapparire qualche tempo dopo. Anche il marito assomigliava a Nihat. Si resta sospesi in questa doppia verità.
I temi costanti della sua narrazione, le ossessioni creative di cui ci ha parlato, si ritrovano tutte in perfetto equilibrio nel tessuto narrativo e compositivo di quest’ultimo suo lavoro. Anche il tema, sempre interessante e quasi hitchcockchiano, dell’identità trova nel film uno sviluppo estremamente credibile pur nella inverosimiglianza rispetto al reale. La storia dell’inganno e quella della ricerca e del pedinamento progrediscono come in un thriller esistenziale, catturando progressivamente l’attenzione dello spettatore. Anche la questione della realtà, che sta tanto a cuore al regista, in questo film resta assorbita nell’ottimo equilibrio che raggiunge divenendo elemento dominante e mai giustapposto nel testo filmico ed è forse questa la ragione per cui appaiono più ragionati gli sguardi della mdp fatti come sempre di lunghi piani sequenza. In questo film

I am not him

I am not him

Pirselimoğlu opera su un piano tale da offrire piena giustificazione narrativa all’attività osservativa della sua mdp.
Il cinema di Tayfun Pirselimoğlu ci ha trascinato dentro un originale universo esistenzialista al quale eravamo forse da tempo disabituati. Il suo sguardo non partecipativo sulla realtà contiene i caratteri di una originale modernità narrativa che ricorda certe sperimentazioni letterarie alla Peter Handke, forse perché le sue storie attingono alla tanto amata e sempre misteriosa, oltre che composita, Istanbul.
Una originalità che sembra appartenere più complessivamente al cinema turco, che cerca una strada autonoma, stretto com’è tra le istanza di una concezione europea e quelle più meditative del cinema orientale. Pirselimoğlu, pur non riconoscendo in sé la sintesi delle due macroculture ci sembra che ne condensi per alcuni tratti il senso complessivo pur non perdendo il suo cinema quel prezioso profilo di autenticità.

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