#Pesaro55 – Banfi, Aprà, Giusti e il cinema di genere in Italia

Uno scontro epico quello di sabato scorso al festival tra Adriano Aprà e Marco Giusti. Acceso nei toni, essenzialmente da parte del primo. Ma che ha finalmente risvegliato un dibattito critico

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Forse parte tutto da Lino Banfi, tra gli ospiti della 55° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Nell’incontro moderato sabato scorso dal Direttore Artistico Pedro Armocida e da Boris Sollazzo, il popolare attore ha affermato in sostanza che molti critici stroncavano i suoi film per poi vederli di nascosto e magari anche apprezzarne alcuni. Solo che il loro giornale non avrebbe mai pubblicato delle recensioni positive. Forse è stato già un cortocircuito. E la bomba è esplosa proprio durante la presentazione del volume Ieri, oggi e domani. Il cinema di genere in Italia. Edito da Marsilio e curato sempre da Armocida e Sollazzo. Adriano Aprà, uno dei pilastri storici del festival, se la prende con Marco Giusti, tra le altre cose anche ideatore di Stracult. Lo accusa di aver contribuito a diffondere il brutto cinema italiano facendo così fuori quello migliore. Poi si scaglia anche contro il manifesto di questa edizione del festival. A questo punto interviene Giusti: “Non li hai visti allora i film”. E poi: “Ma cos’è allora il bello o il brutto? Il bello ‘sto cazzo. I film utili sono il bello”. Ci sono anche parole di stima per Aprà: “Parlare di bello e brutto è una cosa offensiva per te, Adriano. Tu eri il numero uno dei nostri critici. Ed ho visto come un dramma il fatto che non ti abbiano dato Venezia. E invece ti hanno dato Pesaro quando non era più Pesaro. Detto questo, tutto quello che abbiamo fatto dopo è un’altra cosa (…) il cinema è un’industria”.

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Innanzitutto, una precisazione. Sono stati fondamentali, e sono tuttora fondamentali per il cinema italiano sia Aprà sia Giusti. Attraverso un modo di fare critica che è insieme storia e ricerca, anche giusta provocazione ma soprattutto scoperta. Era da tempo comunque che non si assisteva a uno scontro così vivace. E questo è senza dubbio il merito del Festival targato Armocida che non esclude nessuna corrente contraria. Ma le contamina. Facendole convivere e, perché no, scontrare. È ovvio che su certo cinema di genere, la visione di Aprà è impermeabile. È perfettamente coerente con il suo sguardo, la sua storia. Non a caso nell’edizione di Pesaro del 1994 aveva candidamente affermato: “Non ho mai visto un film dei Vanzina”. E forse lui sì, non era uno di quei critici che andavano a vedere i film di Banfi di nascosto. Al tempo stesso è stato fondamentale Marco Giusti, giunto al 20° anno con Stracult, nella rivalutazione di generi e autori snobbati e liquidati precedentemente dalla critica di vecchia generazione. Così come è stato determinante anche il lavoro fatto da Nocturno.

Lo scontro, anche se molto aspro nei toni soprattutto da parte di Aprà, è stato determinante come dibattito non solo per la recente storia del Festival di Pesaro ma proprio per lo stato della recente critica contemporanea. Niente pseudo-studi ammuffiti da accademismo posticcio, parole autoreferenziali o frasi lapidarie modello social. Ma una battaglia davvero d’altri tempi. Che è stata più viva, intensa, passionale degli scontri social. Che sono invece tutto nero, tutto bianco. Io sono io e tu non sei un cazzo. Dove bisogna schierarsi per forza con una fazione. Che è, ovviamente, sempre quella giusta. Dove tutto quello che era considerato merda dal cinema italiano diventa tutto oro. Senza distinzioni. E tutto l’oro diventa merda. Leviamo Antonioni dalla storia del cinema. Che noia mortale La notte o Deserto rosso. Insostenibili. Da eliminare. Caput. Oppure l’altra visione snob. A recuperare una purezza perduta. Fatta da persone che sono anche contente che c’è la crisi del cinema. Così in sala non ci va la marmaglia di gente, ma solo loro. Non più di dieci persone al cinema. Che sbraitano appena provi a scartare una caramella perché magari hai mal di gola. Bisognerebbe reagire sempre come Troisi in Che ora è a quello spettatore mentre è in sala a guardare Il tempo delle mele 3. Se i polizieschi Di Leo o Castellari venivano sbrigativamente liquidati, per non parlare di quelle volgarità di Banfi, una ragione ci sarà. E alla fine la colpa è tutta di Tarantino.

Ora, in un rapido sguardo, i commenti su facebook non hanno perdonato. Soprattutto nei confronti di Aprà. Che ha forse alzato troppo il polverone soprattutto quando ha tirato in mezzo Salvini. E allora sotto con frasi come “Passeranno altri 40 anni e continueranno a non capire un cazzo” e altri giudizi denigratori a causa di un’uscita certamente infelice. Ma bisognerebbe fermarsi lì e contestualizzarla. Bisognerà essere sempre grati a questo “scontro”. Perché il dibattito sui film (si, usiamo ancora questa parola tra Moretti e il Salce del magnifico Il secondo tragico Fantozzi), tranne alcuni casi, per fortuna, si riduce sui social a frasi trancianti. Tutto bello tutto brutto. Al macero i vecchi e dentro i nuovi. Oppure al contrario, sul pregiudizio, anzi convinzione, anzi certezza che i giovani (termine generico, oggi con una forbice che va dai 12 ai 40 anni) non abbiano interessi, valori, non sappiano quello che votano, stanno distruggendo il Paese. Beh, a questo punto vorrei vivere uno scontro come quello di sabato 22 per altri 100 anni. Dove, alla fine, tutto parte da Lino Banfi.

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